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La scelta della Lega e di Matteo Salvini di staccare la spina al governo Conte alla vigilia della pausa agostana del Parlamento ha coinciso con una fase di subbuglio dei mercati finanziari che non necessariamente è da imputare pienamente all’atto formale dell’avvio della crisi di governo. La fine dell’esecutivo gialloverde, infatti, si consuma in una fase cruciale per l’economia internazionale e, in particolare, per il contesto europeo.

Una congiuntura preoccupante

Sul mondo tornano a soffiare venti recessivi e l’Europa appare vaso di coccio tra i vasi di ferro. Centrale è, soprattutto, la Germania che mostra con i dati negativi sulla produzione industriale primaverile i limiti del suo modello. Berlino infatti sta conducendo l’Europa ad essere impreparata con la “Hard Brexit” targata Boris Johnson in via di preparazione e subisce le minacce di dazi dell’amministrazione Trump. Deutsche Bank incarna i limiti della finanza europea, messa nel mirino dal rivale comparto americano, ma anche oltre Atlantico non mancano i motivi di preoccupazione: gli Usa devono affrontare un aumento del debito privato sempre più preoccupante e, oltre a dazi e 5G, hanno ora un nuovo fronte aperto con la Cina in campo valutario.

In questo contesto, la rottura della coalizione di governo italiana è contemporanea all’attestazione da parte della Bce di un quadro congiunturale che necessita di “un orientamento di politica monetaria altamente accomodante per un prolungato periodo di tempo”. Insomma, un taglio dei tassi e il riavvio del quantitative easing, come fatto intendere a luglio da Mario Draghi. La filosofia del “quantitative easing permanente” che pompa ossigeno in mercati altrimenti asfittici, dimostra che la Bce rappresenta la vera istituzione sovrana dell’Unione (“sovrano è chi decide dello stato d’eccezione”, scriveva Carl Schmitt, in questo caso le dinamiche economiche) ma, soprattutto, non offre garanzie di discontinuità reali ai problemi dell’economia reale.

I limiti dell’azione gialloverde e l’incubo manovra

In questo contesto il governo gialloverde si è trovato con le spalle al muro. La mediazione del premier Giuseppe Conte, nell’autunno scorso, ha portato il governo a incassare il via libera comunitario sul deficit, a costo, tuttavia, di una serie di impegni su Iva e tagli di spesa pubblica che, con un gioco delle tre carte, il ministro Giovanni Tria avrebbe puntato a “finanziare” con i tassi bassi garantiti dalla Bce. L’effetto-traino della fiducia a tempo data ai mercati dalla Bce si è però esaurito, e la Lega e il Movimento Cinque Stelle si sono trovati nella difficile condizione di dover puntare a dare la quadra a una manovra che avrebbe dovuto, inevitabilmente, superare le forche caudine delle clausole Iva da 23 miliardi.

La Lega in questo contesto avrebbe avuto tutto da perdere, dato che a risultare penalizzata sarebbe stata l’agenda leghista sulla flat tax e sarebbero venuti al pettine numerosi nodi legati alla carenza di investimenti nella manovra 2019, rilevati dal ministro Paolo Savona ai tempi della sua permanenza nell’esecutivo. L’aver impostato una manovra in questo modo ha colpito duramente le prospettive per il 2020, in cui inoltre potrebbero venire colpite le prospettive di un altro cavallo di battaglia leghista: le autonomie regionali. Il conferimento di maggiori poteri decisionali alle regioni industriali del Nord è funzionale al rafforzamento del loro modello politico-economico inserito alla perfezione nella catena del valore tedesca. La Lega in materia economica fonda il suo radicamento settentrionale sulla continuità tra industria settentrionale produttiva e catena del valore tedesca. Un dato che la crisi industriale di Berlino metterebbe a rischio, minando inoltre a livello aggregato la politica industriale italiana.

Da qui la scelta di rompere con l’esecutivo: scelta volta a massimizzare il consenso elettorale per affrontare con una cabina di regia leghista la difficile manovra 2020 dopo il ritorno ad elezioni. Ma se Matteo Salvini ha voluto andare in all-in con in mano una scala colori, gli apparati dello Stato italiano, Quirinale in testa, potrebbero calare la scala reale per negare al Carroccio il ritorno al voto invocando le problematiche che causerebbe una manovra scritta in esercizio provvisorio date le contingenze che si vanno sommando a livello globale.

La buriana della crisi globale

C’è un grande equivoco tra molti commentatori e analisti politici, nonché tra diversi esponenti delle istituzioni: si ritiene che la fine dell’esperienza Lega-M5S porti inevitabilmente con sé l’ascesa di un governo tecnico alla Monti come unica alternativa realistica e percorribile nell’ottica del Capo dello Stato. Nulla di più falso: i fallimenti dell’austerity montiana e i problemi del “pilota automatico” imposto all’Italia (che quest’anno avrebbe dovuto programmare il più basso deficit dalla Grande Recessione ad oggi) non sono certamente stati ribaltati dall’esecutivo gialloverde, che ha goduto dello spazio di manovra europeo di Conte ma non ha, come detto, anticipato i tempi con serio piano anti-austerità. Che tagli ulteriori avrebbe da fare un esecutivo tecnico, con gli investimenti in infrastrutture, scuola, sanità e welfare in affanno da tempo?

Diverso discorso è, invece, la necessità di evitare l’esercizio provvisorio che scatterebbe, aumenti Iva inclusi, se il 31 dicembre prossimo l’esecutivo non riuscisse a presentare una manovra pienamente funzionante. L’Italia deve, necessariamente, disporre di un esecutivo capace di sterilizzare l’Iva e contenere la buriana della crisi globale entro la fine dell’anno: la reale necessità del Paese è quella, e potrebbe essere il freno maggiore a una chiamata alle urne.

Specie considerato il fatto che un’ulteriore fase di incertezza creerebbe problemi non tanto sul fronte dello spread quanto, piuttosto, in campo bancario: le sofferenze borsistiche dei principali istituti negli ultimi giorni segnalano un rischio emorragia che minerebbe la stabilità di un sistema capace di resistere in maniera resiliente alle cure da cavallo imposte dalla Bce ma che, privo di un opportuno cappello politico, avrebbe scaricati su di sé i costi di un risanamento a livello europeo dei guai prodotti, principalmente, dal comparto franco-tedesco.

Scrive evocativamente Il Sussidiario che “una crisi di governo proprio ora, se non gestita con astuzia ed enorme rapidità e linearità, equivale a tagliuzzarsi con una lametta, prima di tuffarsi in acqua”. Serve chiarezza e celerità nelle risposte, sia che si vada a nuove elezioni sia che la strada sia un governo di scopo per la legge di bilancio, ipotesi analogamente legittime sul piano istituzionale. Una via praticabile potrebbe essere una richiesta all’Unione europea della dilazione dei termini per la presentazione della nota di aggiornamento al Def e della manovra finanziaria.

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