Nel caso in cui la Cina dovesse usare la forza per risolvere la questione taiwanese gli Stati Uniti interverrebbero militarmente per difendere l’isola. Alla fine di settembre Joe Biden ha spiegato che, di fronte ad un’ipotetica guerra tra Pechino e Taipei, Washington avrebbe messo in campo un intervento diretto, contrariamente a quanto visto per la vicenda ucraina.

Quella di Biden è subito sembrata un’uscita a dir poco curiosa, se non altro per l’azzardo geopolitico contenuto in una soluzione del genere. Non a caso la Casa Bianca è stata subito costretta a chiarire, in fretta e furia, che le parole del presidente non implicavano alcun cambiamento nella politica degli Stati Uniti nei confronti di Taiwan. “Il presidente si è già espresso prima d’ora, non ultimo in occasione della sua visita a Tokyo all’inizio di quest’anno”, ha fatto sapere un portavoce della presidenza Usa.

Per la cronaca, durante l’intervista sopra richiamata, Biden aveva precisato che gli Stati Uniti avrebbero continuato ad aderire alla politica della Cina unica (la cosiddetta One China Policy), e che non avrebbero preso formalmente posizione a sostegno dell’indipendenza di Taiwan.

Il grande dilemma, allora, può essere sintetizzato nella seguente domanda: gli Stati Uniti difenderanno Taiwan ad ogni costo? Per risultare ancora più precisi potremmo chiederci: fino a che punto vorranno – e potranno – spingersi Biden e i suoi successori?



La variabile dei semiconduttori

Basta dare un’occhiata al sistema economico di Taiwan per rendersi conto qual è la variabile che potrebbe determinare, non solo il futuro dell’isola, ma anche l’eventuale coinvolgimento degli Stati Uniti in un conflitto a sostegno di Taipei. Stiamo parlando dell’industria dei semiconduttori.

Pechino e Washington, infatti, dipendono entrambe dalla fabbricazione di semiconduttori made in Taiwan, risorse fondamentali e preziose. Giusto per mettere sul tavolo qualche numero, le aziende cinesi di semiconduttori possono produrre solo il 6% dei chip necessari per alimentare l’industria dell’elettronica di consumo del colosso asiatico.

Il Dragone, come ha sottolineato lo Stimson Center, si affida alla Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (TSMC) per coprire il 70% del deficit. Allo stesso tempo, TSMC produce, su contratto, anche il 92% dei chip più avanzati progettati dalle società di semiconduttori statunitensi.

Eccolo qui, dunque, il famigerato “scudo di Silicio” taiwanese: secondo questa lettura, la dipendenza della Cina dai semiconduttori di Taiwan non sarebbe nient’altro che l’ancora di salvezza dell’isola. In altre parole, e grazie al citato scudo di silicio, finché Pechino sarà costretta ad affidarsi alle aziende taiwanesi sarà difficile, se non impossibile, che i cinesi possano scatenare una guerra per riconquistare la “provincia ribelle”.

Ombre future

Ma TSMC e i suoi “fratelli” sono davvero deterrenti sufficienti contro una qualsiasi e ipotetica invasione cinese? Questo era senz’altro vero negli anni ’90. Oggi la situazione è cambiata, ed è cambiata precisamente dall’inizio della guerra commerciale tra Usa e Cina. Da quel momento in poi, Pechino ha cercato in tutti i modi di evitare punti di strozzatura critici.

Il settore dei chip era ovviamente in cima all’agenda del Partito Comunista Cinese, intenzionato a puntare su una produzione di semiconduttori e chip completamente made in China. Nell’agosto del 2022 ecco il primo, possibile, punto di svolta. Il principale produttore di chip cinese, Semiconductor Manufacturing International Corp (SMIC), era appena riuscito a compiere un importante progresso tecnologico, iniziando ad utilizzare il processo a 7 nanometri per produrre i semiconduttori (si pensava che SMIC non potesse andare oltre i 14 nanometri).

Piccola spiegazione tecnica: un processore a 7 nm è formato da transistor – ovvero dispositivi elettronici che permettono di controllare la corrente di un circuito – grandi la metà rispetto a un altro processore a 14 nm. Usando i primi, nello stesso spazio il produttore può inserire il doppio dei transistor, o lo stesso numero di transistor nella metà dello spazio. È importante, inoltre, ricordare che più transistor ha un processore, e più potenza di calcolo è disponibile per processare i dati.

Scendendo nei dettagli, SMIC aveva insomma raggiunto la maturità tecnologica e, in breve, avrebbe iniziato a competere con le fonderie leader nel mondo, tra le quali la citata TSMC, Samsung Elettronica e Intel. Sempre alla fine della scorsa estate SMIC informava che i processi per realizzare i semiconduttori a 14 nm erano entrati nella fase di produzione di massa.

Che cosa significa tutto questo? Con una produzione autoctona di chip a 14 nm, la Cina sarebbe in grado di alimentare i chip della propria industria di consumo anche nel caso in cui l’accesso a chip più avanzati – leggi chip taiwanesi – dovesse essere completamente interrotto.

A peggiorare la situazione c’è, paradossalmente, la decisione degli Stati Uniti di spingere per il trasferimento della produzione taiwanese di TSMC all’estero, nel tentativo di mettere al sicuro la filiera dalle grinfie dell’ex Impero di Mezzo. Attenzione però, perché se Taiwan non dovesse più avere lo scudo di silicio rappresentato da TSMC, allora un attacco cinese diventerebbe meno utopico. Ma, in virtù dei progressi tecnologici di Pechino, anche la permanenza di TSMC nell’isola potrebbe non esser più sufficiente a disincentivare il Dragone dall’inghiottirsi l’isola.