Dopo un lungo sonno, l’Europa, Italia compresa, ha deciso di riaprire le sue miniere per cercare di sfuggire al quasi monopolio cinese sulle “materie prime critiche”, ovvero il litio, il cobalto, il rame ma anche terre rare dai nomi meno noti come neodimio, praseodimio, cerio, gallio e germanio. Materiali strategici “strettamente connessi”, come ha ricordato il ministro Adolfo Urso “per lo sviluppo delle tecnologie necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione”. L’obiettivo “è raggiungere entro il 2030 almeno il 10% di materie prime estratte nel nostro continente”.
Un percorso tutt’altro che agevole soprattutto per il nostro Paese che da 30 anni ha chiuso miniere, aziende e ricerche (la mappatura dei siti d’estrazione risale alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso). Alle difficoltà burocratiche, che l’Unione europea ha promesso di sveltire, si sommano poi problemi ambientali e professionali (chi ha ancora voglia di scavare sotto terra?). Insomma vedremo.
Il caso della Norvegia
Chi questi problemi non si pone è invece la Norvegia. Con buona pace dei proclami green puntualmente rilanciati in ogni occasione, il governo di Oslo — dal 2021 una coalizione di centrosinistra guidata dal laburista Jonas Gahr Store — ha deciso di investire pesantemente nell’estrazione di petrolio e gas. Lo scorso 28 giugno l’esecutivo ha autorizzato 19 progetti off shore del valore complessivo superiore ai 200 miliardi di corone (17 miliardi di euro). Una lista che si aggiunge ai 47 permessi concessi a gennaio e ai 92 blocchi supplementari previsti per il 2024.
Per il ministro dell’Energia Terje Aasland la decisione rappresenta un “contributo importante alla sicurezza energetica in Europa e in più sarà decisivo per lo sviluppo di altra attività come la cattura e lo stoccaggio di Co2, l’idrogeno e l‘eolico”.
Più pragmaticamente è, come sostengono gli analisti, un problema di cassa. Nel settore energetico lo Stato oltre a ricevere le tasse pagate dalle compagnie guadagna dalle sue partecipazioni dirette nei giacimenti e nelle infrastrutture e dai dividendi di Equinor, il più grande operatore sulla piattaforma continentale norvegese (di cui possiede il 67%).
I profitti per la guerra
Una cornucopia che nel 2022, grazie alla guerra in Ucraina, ha fruttato entrate per ben 131 miliardi di euro, quasi il triplo rispetto all’anno precedente. Profitti record che hanno fruttato al Paese scandinavo la non bella fama di “profittatore di guerra”. Un’accusa a cui il governo ha risposto con un piano quinquennale di 6,8 miliardi di euro in aiuti civili e militari a Kiev.
Ma esattamente dove fanno a finire gli stellari ricavi di gas e petrolio? Dal 1990 tutti nelle casse del Government pension fund global (Gpfg) noto anche come Oil & gas Fund, il più grande fondo sovrano del mondo, per legge di proprietà esclusiva del popolo norvegese. Ogni anno il ministero delle Finanze trasferisce al Fondo la parte dei proventi derivanti dalla cosiddetta rendita petrolifera non contabilizzati come entrate nel bilancio pubblico. In linea con i parametri di politica economica fissati nelle “fiscal rule policy guidelines”, viene assicurato un uso virtuoso della rendita energetica con il finanziamento di un deficit strutturale di bilancio pubblico annuo non superiore al 4% del valore di mercato del Fondo sovrano. Il limite del 3%, corrisponde al tasso di rendimento reale (al netto dei costi di gestione e del tasso di inflazione) atteso nel lungo periodo del Gpfg. Tale sistema è finalizzato a gestire con accortezza le risorse acquisite dagli idrocarburi evitando un surriscaldamento dell’economia nazionale con un eccessivo utilizzo della ricchezza petrolifera. Un sistema complesso, magari macchinoso che però assicura alla Norvegia un futuro infinito di benessere e stabilità.
Ma non mancano le critiche e le polemiche. Le varie associazioni ambientaliste — una forza sociale influente — si oppongono alle nuove decisioni governative e cercano di smontare la narrazione “buonista” del primo ministro Store. Per Frode Pleym, leader norvegese di Greenpeace, le mosse dell’esecutivo “sono profondamente immorali e irresponsabili. Rappresentano un utilizzo cinico della guerra ucraina al solo fine di arricchire ancor più il Paese e confermare la dipendenza dell’Europa dagli idrocarburi”. Da qui il ricorso ai tribunali per bloccare i nuovi investimenti. Sullo sfondo una questione etica. Per gli ambientalisti è tempo di rinunciare almeno a parte dei proventi del Gpfg e destinarli, sotto il controllo delle Nazioni Unite, a finanziare la transizione verde nei Paesi più poveri o problematici. Una richiesta che per la maggior parte dei norvegesi suona come una bestemmia. La gallina delle uova d’oro non si tocca.