Lo spettro della recessione tecnica per la Germania si avvicina sempre di più. Di fatto nel Paese il livello di guardia dello stato di crisi è già stato ampiamente superato, con il sovrapporsi di segnali allarmanti sulla tenuta dell’industria, della crescita e delle politiche economiche da pilota automatico del governo di Angela Merkel.

Il rapporto di un gruppo di think tank tedeschi in cui si prevedeva un dimezzamento delle stime di crescita per l’anno in corso e il 2020 è stato immediatamente suffragato dalle stime ufficiali del ministero dell’Economia guidato da Peter Altmeier, dopo l’attivazione di una serie di campanelli d’allarme. Ad agosto l’industria aveva segnato il più grave colpo al ribasso su base mensile e annua da oltre un decennio, contribuendo allo sviluppo di dati sulla (non) crescita del Pil che indicavano l’ingresso della Germania in una fase di ristagno, segnata dalla contrazione dell’economia nel terzo trimestre, dall’avvisaglia su un possibile ingresso in recessione e dal calo della fiducia degli imprenditori e degli operatori dei servizi.

Anche la banca centrale tedesca, la Bundesbank, era oltremodo scettica sulle prospettive dell’economia nazionale: accusando l’incapacità del governo di reagire alla guerra dei dazi, che per le politiche mercantiliste di Berlino rischia di travolgere un’Europa sempre meno protagonista sul piano politico, al ristagno dell’industria e al mancato sviluppo della domanda interna. Ovvero ai contraccolpi di un sistema coordinato da Berlino, rinsaldato con le politiche di austerità imposte al resto d’Europa, funzionali a foraggiare l’espansione delle esportazioni ad alto valore aggiunto per le imprese tedesche e basso ritorno per i lavoratori (sempre più precari grazie alle riforme Hartz) attraverso la contrazione delle prospettive produttive e industriali delle loro industrie nazionali. Integrate, alla meglio, nella catena del valore germanica. La terna svalutazione interna-austerità europea-mercantilismo ha portato Berlino a violare le regole che le faceva più comodo infrangere, quelle sul rapporto tra surplus commerciale e Pil, mentre nella Bce la Bundesbank tentava di fermare il pur timido tentativo di Mario Draghi di annacquare l’austerità col quantitative easing, che pure tutto ha fatto fuorché sfavorire Berlino.

Ora la banca centrale tedesca si accorge, guardando i dati, che non tutto era rosa e fiori. E che le contraddizioni degli ultimi anni stanno venendo a galla. Nel frattempo, si unisce al coro di chi avverte il rischio recessione, prefigurando dalle sue stime che una contrazione prevista dello 0,1% del Pil nel terzo trimestre farebbe scattare, tecnicamente, tale condizione. Un Paese è infatti in recessione tecnica quando registra due trimestri consecutivi di crescita negativa.

Dalla leadership di Berlino non sembra tuttavia provenire alcuno stimolo a un reale cambiamento, e lo stesso governatore dell’istituto centrale tedesco, il falco del rigore Jens Weidmann, non ostenta alcuna riflessione reale sui problemi dei dogmi dell’austerità. Anzi, Weidmann ha guidato nelle ultime settimane la fronda contro l’ultima battaglia di Draghi, il ritorno al Qe, misura largamente insufficiente per colmare il gap produttivo dell’Eurozona (per la mancanza di stimoli concreti all’economia reale) ma certamente migliore dell’isolazionismo austeritario. Nell’attaccare Draghi Weidmann ha avuto il sostegno di un personaggio del calibro di Christian Sewing, ad di Deutsche Bank, mina vagante della finanza europea, che sotto la sua gestione continua a essere la un colosso in piena crisi. Lanciare l’allarme per l’apatia del governo non cancella le responsabilità delle Bundesbank, anzi: a chi ha la memoria lunga ricorda quanto non sia stato solo il governo tedesco l’artefice della tenuta dei dogmi dell’austerità che hanno danneggiato gravemente l’economia europea. Finendo per causare danni anche nella patria d’origine.

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