L’imminenza della visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping e l’annuncio dell’adesione del nostro Paese al memorandum d’intesa sulla Nuova via della seta dato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte hanno riportato al centro del confronto la discussione su quale sia il reale interesse nazionale di Roma nel contesto della partita globale che si gioca tra l’Impero di Mezzo e gli Stati Uniti.

Perché Trump teme l’avvicinamento tra Cina e Italia

Washington teme l’ingresso nella Belt and Road Initiative (Bri) di un alleato storico e strategico come l’Italia. Teme, in particolar modo, che vi possa essere sovrapposizione tra l’ingresso di Roma nella grande strategia infrastrutturale e commerciale di Pechino e l’espansione delle attività di Huawei nella costruzione delle strategiche reti 5G.

L’Italia, con le sue basi, la sua proiezione mediterranea e l’hub siciliano delle telecomunicazioni, nella grande strategia a stelle e strisce ricopre indubbiamente un ruolo fondamentale ed è stata richiamata dalla Casa Bianca e dall’Amministrazione Trump a valorizzare la sua scelta di campo in ambito atlantico. In particolare, gli Stati Uniti puntano fortemente sulla Lega, socio di minoranza della coalizione di governo ma preferito da Washington al Movimento Cinque Stelle, ritenuto più ondivago, come ha confermato la recente visita di Giancarlo Giorgetti oltre Oceano.

L’interesse nazionale come principio guida

Se alcuni mesi fa gli Stati Uniti si erano resi disponibili a favorire una certa sinergia economica italo-cinese (aprendo alla gestione da parte di Leonardo di commesse provenienti da Pechino) in cambio della rinuncia all’ingresso di Huawei nel 5G nazionale, ora la richiesta è più netta: no al 5G cinese, no alla Nuova via della seta. Nonostante altri Paesi europei ed atlantici al tempo stesso (Grecia, Portogallo, Ungheria) non abbiano ricevuto richieste tanto onerose.

“La prudenza è più che legittima: nei suoi accordi la Cina, potenza economica, ha spesso posto in condizione svantaggiosa i partner”, sottolinea Marco Gervasoni su Il Messaggero. “In più, tutti sanno che il governo giallo-verde è nato grazie a un’importante spinta dell’amministrazione americana. Una spinta che l’ha sostenuto nel momento in cui tutti i cosiddetti partner europei lo sbertucciavano. E tuttavia, su tale questione, sarà bene abbandonare gli approcci fideistici e ragionare a mente fredda, tenendo ben presente un valore che a Trump pure è molto caro: l’interesse nazionale”.

Un approccio “trumpiano”

Sulla scia di quanto da sempre sostiene Trump, tanto in politica quanto negli affari, Gervasoni sostiene che “la nostra politica estera debba ispirarsi al paradigma del deal. Nel caso della Cina, dovremmo sederci attorno a un tavolo e valutare quanto, in termini di nostro vantaggio nazionale, il rapporto ci possa arricchire. E al tempo stesso chiedere agli Stati Uniti che cosa ci garantiscono in cambio della rinuncia al dialogo con Pechino”. In altre parole: capire quali siano le linee rosse fissate da Washington per le mosse degli alleati, e in questo campo la richiesta di una rottura con Huawei potrebbe essere considerata comprensibile sotto il profilo geopolitico, per conoscere i margini di manovra ma ribadire al tempo stesso che l’adesione dell’Italia alla Bri non implicherebbe la sua rinuncia al legame strategico con gli Usa.

Il rischio che, soprattutto da parte leghista, si potrebbe profilare è di assistere a un’incondizionata adesione ai desiderata statunitensi che impedisca a un Paese membro del G7, forte di un Pil di 2mila miliardi di euro e centrale nel Mediterraneo di agire con i dovuti margini di autonomia. Paradosso di notevole portata se si pensa che la Lega è lo stesso partito che ha inserito nella compagine governativa Michele Geraci, architetto dell’intesa con Pechino.

Gli alleati degli Usa sostengono già la Bri

Questo concetto ispirato all’interesse nazionale vale ancora di più in considerazione del fatto che, come sottolinea Giorgio Cuscito su Limes, “altri alleati degli Usa hanno di fatto già sposato le Nuove vie della seta. Nel 2021, la Cina prenderà il controllo del nuovo terminale del porto israeliano di Haifa a pochi chilometri da una base militare a stelle e strisce. Le Filippine, che ospitano diverse installazioni americane, hanno firmato il memorandum di adesione qualche mese fa. Il Giappone vuole sviluppare con la Cina dei progetti congiunti nel Sud-Est asiatico nonostante la storica rivalità”. Esempi del genere dimostrano come la costruzione di una cooperazione pragmatica plasmata sull’interesse nazionale sia possibile.

Opportunità e rischi del rapporto con Pechino

Certamente, tale cooperazione implicherebbe la necessità di dotarsi di un concentrato di poteri strategici di controllo e gestione degli investimenti di cui attualmente il sistema Paese non dispone. Un utile esempio può essere quello della Germania, che recentemente ha messo in cantiere il progetto di un fondo sovrano capace di prevenire scalate straniere a imprese strategiche considerate contrarie all’interesse nazionale.

E la priorità principale della relazione tra Italia e Cina appare legata allo sviluppo dei porti nazionali, che con la Bri completamente dispiegata potrebbero vivere una fase di splendore e rinascita ma che Roma deve puntare a mantenere sotto il proprio esclusivo controllo strategico. Valorizzare la propria proiezione mediterranea, rafforzare le prospettive commerciali e rilanciare il ruolo di “ponte” tra Oriente e Occidente che già Amintore Fanfani, Giorgio La Pira e Bettino Craxi hanno in passato esaltato è possibile, così come è possibile perfezionare un accordo con Xi Jinping senza uscire dalla compatta adesione al campo occidentale. Purché sia l’interesse nazionale la bussola delle azioni italiane.

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