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La Commissione Europea ha annunciato il fondo “Sure” proposto dalla presidente Ursula von der Leyen come sostituzione europea delle misure di cassa integrazione previste dai governi nazionali per alleviarne il peso della risposta alla crisi del coronavirus. La dotazione dello strumento è prevista essere di circa 100 miliardi di euro.

Secondo quanto riporta Agenzia Nova, nel contesto di questo piano, “l’Ue fornirebbe prestiti ai governi che necessitano di aiuti per finanziare programmi a breve termine, come quelli sul modello del piano tedesco Kurzarbeit (lavoro a termine)”. Il fondo sarebbe costituito come forma di “assicurazione” contro il rischio di una catastrofe occupazionale comunitaria e la Commissione per attivarlo potrebbe semplicemente chiedere di attivare l’articolo 122 comma 2 del Trattato, che prevede la possibilità di uno Stato di ricevere assistenza se si trova “in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”.

Accolta da una serie di elogi sperticati e da molti considerata come l’iniziativa capace di aprire la strada a una risposta corale europea alla crisi, l’architettura del Sure presenta, a ben guardare, diversi limiti e anche alcuni rischi sistemici.

In primo luogo perchè la misura è pensata come strumento di breve periodo e lo stanziamento di cui parla il Ft è pensato come preventivo e precauzionale. In questo contesto, la dotazione del fondo sarebbe eminentemente teorica, prima ancora che pratica.

In secondo luogo, vi è il tema della concessione di garanzie per il prestito europeo che, seppur erogato a bassi tassi d’interesse, richiederà delle contropartite da parte dei Paesi destinati a ricevere aiuti. La Commissione prevede almeno 25 miliardi di euro di garanzie in tutta Europa: una quota di diversi miliardi dovrebbe dunque essere intestata in capo all’Italia in virtù del suo peso economico. Assume, forse, connotati meno ironici e più inquietati la proposta del dem Luigi Zanda di ipotecare porti e palazzi istituzionali?

In terzo luogo, inoltre, vi è il fatto che tale strumento non crea politiche anticicliche reali o una rottura del fronte del rigore che penalizza da anni l’Europa, ma si limita invece a tamponare i previsti effetti economici ed occupazionali del tracollo economico da Covid-19. Mentre istituzioni come la Banca europea degli investimenti (Bei) promuovono prestiti alle imprese, investimenti e aiuti per decine di miliardi di euro, la Commissione punta a fungere da contenitore di un danno atteso, e non a prevenirlo.

Quarto punto, la dotazione di risorse, non immediatamente operativa, sfigura al confronto delle imponenti politiche messe in campo da singoli Stati nazionali quali Germania, Francia e Spagna, che hanno previsto dotazioni economiche e deficit senza precedenti negli ultimi anni. Considerare la Sure la panacea o addirittura la giustificazione, per l’Italia, per non andare avanti con politiche anticicliche più incisive potrebbe avere rovinose conseguenze.

Timidi passi avanti, da parte della Commissione, si stanno manifestando. Il rischio, però, è che la misura dell’indennità di disoccupazione, presentata come il palliativo per l’assenza di politiche più incisive o addirittura come alternativa ai coronabond“, possa risolversi in un compromesso al ribasso. Il grosso nodo delle condizionalità richieste e del rischio di un “commissariamento” degli asset dati in garanzia è tutto da sciogliere. Riassumendo in un’espressione, diremmo Too little, too late: forse il motto più congeniale all’Europa di questi anni.

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