Il mondo dell’economia italiana ed europea, in questa fase, si trova di fronte a una serie di dilemmi legati, sostanzialmente, alla difficoltà che i Paesi del Vecchio Continente sperimentano nel restare ancorati alle grandi aggregazioni su cui si vanno disegnando le rotte del potere economico globale. Fondate sul dualismo sino-statunitense e sul capitalismo delle piattaforme digitali, politicizzato e battente bandiera nazionale nella sua strutturazione ma globale nella sua espansione, legato a un livello di accumulazione finanziaria senza precedenti nella storia dell’economia.

Un’economia che si fonda, ora più che mai, sull’immateriale, i dati e la loro gestione, il cloud computing, sul passaggio dall’informatica e il digitale tradizionali alla realtà aumentata dell’intelligenza artificiale, dell’internet delle cose, del mondo plasmato dal 5G. Cui corrispondono aggregazioni di valori borsistici e finanziari ormai completamente slegate dall’andamento di imprese e società nell’economia reale, soprattutto negli Stati Uniti in questa fase di attività frenetica nelle borse.

Parlando con Milano Finanza Edoardo Narduzzi, fondatore e presidente di Mashfrog, gruppo del business digital con base a Londra, ha segnalato alcuni esempi: “Banca Intesa Sanpaolo è la più grande banca italiana, ma in Borsa capitalizza meno di CrowdStrike, una società di successo che offre soluzioni di cyber-sicurezza nel cloud. Leonardo, che dopo l’uscita di Stellantis dal perimetro italiano è la più grande azienda manifatturiera del paese, è dieci volte più piccola per capitalizzazione di Borsa di Workday, una società di Boston che offre soluzioni in cloud per gestire le risorse umane. Eni, il campione nazionale dell’energia, vale in Borsa sei volte di meno di Shopify, azienda canadese specializzata nel commercio elettronico in cloud delle Pmi”.

Narduzzi è pessimista sulle prospettive di ripresa per il Vecchio Continente e ritiene che “è già periferia del nuovo capitalismo; non coglie il mondo che verrà, è diffidente al rischio imprenditoriale digitale”. Certo, si può dire che dopo la sfida americana persa negli Anni Settanta che ha impedito all’Europa di diventare cuore pulsante della grande rivoluzione digitale ora si sia aggiunta anche la non secondaria sfida cinese a schiacciare su un bipolarismo che marginalizza l’Europa il contesto tecnologico e digitale globale. Ma d’altro canto non si può dire che la situazione sia compromessa e irreversibile.

L’Europa non dispone dell’iper-potenza finanziaria statunitense né delle capacità di investimento che consentono al Partito comunista cinese di programmare strategicamente i piani quinquennali. Dispone però di un’importante base industriale e di un capitale umano consolidato; di un mercato interno tuttora ricco nonostante il depauperamento della crisi; dispone, negli ultimi anni, della consapevolezza crescente che una postura di medio-lungo periodo può essere messa in campo anche in questi settori.

L’industria, il mondo delle applicazioni concrete delle nuove tecnologie, la costruzione di filiere consolidate nei materiali e nei prodotti più strategici possono essere il volano per la ripresa della competitività europea. Microchip, semiconduttori, batterie elettriche, idrogeno, impianti per le telecomunicazioni, cavi, e così via: molti prodotti aspettano solo di essere realizzati con grandi aggregazioni nel contesto veterocontinentale, in grado di mediare tra la possibilità di fare affari con i contendenti della guerra tecnologica, il rispetto della scelta di campo occidentale e la ricerca di una via per la massimizzazione dell’utile e del profitto per l’Europa.

Il Vecchio Continente ha dominato il mondo ai tempi delle “vele” e dei “cannoni” narrati da Carlo Cipolla, non lo farà ora nell’epoca del cloud e del 5G. La Seconda guerra mondiale ha sancito definitivamente il passaggio dello scettro in mani altrui. Ma può scegliere con cura i settori in cui potersi rilanciare e giocare da protagonista. In questa fase, la possibilità che i Paesi europei creino aziende come Google, Amazon, Huawei e Alibaba è vicina a zero. È diverso, per esempio, il discorso delle scienze della vita, sulla transizione ecologica, sullo sviluppo infrastrutturale, sulle automobili ibride, sull’elettronica di base, nell’automazione industriale, nella meccatronica. Tutti campi dove ci sono importanti capacità europee e su cui la crisi in atto può essere un acceleratore, anche attraverso operazioni su scala continentale dei vari fondi sull’innovazione che, del resto, si sono già dimostrati efficaci sul fronte dello sviluppo del vaccino Pfizer-Biontech.

Campi in cui la competitività si gioca ancora sulla capacità di costruire e realizzare. Sull’industria, le catene del valore e le filiere. Sul possesso di competenze progredite in campo tecnico, ingegneristico, industriale. Da valorizzare e promuovere spendendo sull’attrazione dei talenti e sulla ricerca. In questi campi l’Italia ha capacità da spendere: WeBuild, colosso delle infrastruttureComau e Brembo, campioni dell’automazione e della componentistica; la galassia di Enel e Terna, che rendono il Paese una superpotenza della ricerca e dell’innovazione per la transizione energetica. Sono solo alcune delle aziende che, con dimensioni e prospettive diverse, giocano da campioni nei loro campi. E che le politiche pubbliche e il Recovery Fund possono rafforzare e moltiplicare.

Darsi un indirizzo strategico e programmatico è fondamentale: nei settori di riferimento, per molte aziende non c’è capitalizzazione e potenza finanziaria che tenga per i concorrenti d’oltre Atlantico e d’Oriente. La pandemia ha insegnato, del resto, che le società occidentali, e non solo, sono dipendenti in maniera vitale, dall’industria e dall’economia “concreta”, produttiva, manifatturiera. Ricostruire e rafforzare la base industriale nei settori delocalizzati e valorizzare quella dei comparti più strategici può essere il futuro dell’Europa. Garanzia di benessere, prosperità e rilevanza globale nei prossimi decenni. Ovvero di quell’autonomia strategica di cui spesso si parla.





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