Poche certezze sui fondi destinati ai Paesi, ancora meno sui tributi che colpiranno l’economia comunitaria. Questo sembra il copione conclusivo delle lunghe discussioni sul Recovery Fund e sui progetti ad esso annessi che per mesi hanno attanagliato l’Europa. Nella consapevolezza che l’approvazione dei piani nazionali arriverà in pieno 2021 e che i primi rimborsi potrebbero partire l’anno dopo o addirittura dopo, come evidenziato da diversi esperti di fondi Ue di solida e provata fedeltà europeista, è bene sottolineare che nel frattempo non si arresterà l’entrata in vigore di quelle tasse che costituiranno le risorse proprie con cui l’Unione finanzierà il bilancio pluriennale 2021-2027.
Appare oramai certo che nei prossimi mesi queste tasse saranno messe in campo: all’Unione Europea non resta che decidere quali promuovere e con che entità colpire società e transazioni economiche nel Vecchio Continente. Ma se firmare una cambiale al buio nella speranza di ricevere soldi in futuro rappresenta già di per sè un problema, possiamo immaginare cosa possa voler dire approvare un piano di rilancio economico europeo senza aver certezza sugli oneri che ai singoli Paesi, Italia compresa, saranno richiesti per finanziarlo.
A ottobre l’Europarlamento ha votato una direttiva sulla politica commerciale che, come questione avulsa dal contesto generale, includeva una clausola che permetteva al Consiglio e alla Commissione europea di imporre nuove tasse per il finanziamento delle cosiddette ‘risorse proprie’. Leggittimando ex post quanto nelle discussioni sui fondi per la ripresa post-pandemica si diceva da tempo, ovvero optare per l’introduzione di estese tasse di matrice europea per finanziare il Recovery Fund. Una mossa approvata in votazione dagli “azionisti di maggioranza” del governo giallorosso, Pd e M5S, e dal leader di Azione, Carlo Calenda.
La confusione sulle “risorse proprie” è notevole, dato che poco c’è da sapere sul gettito delle nuove misure, sulla loro targetizzazione, sui loro obiettivi politici. Si rischia di mischiare in una serie di norme comunitarie imposte che avrebbero una ratio strategica migliore a livello nazionale e altre che ha un senso tenere su scala comunitaria. Su quest’ultimo terreno, pensiamo ad esempio alla web tax sulle transazioni dei giganti del web. Obiettivo sicuramente nobile quello della limitazione del potere oligopolistico di Google, Amazon e compagnia nel teatro europeo; ma politica decisamente inefficiente il tentativo di far pagare unicamente un’imposta su scala comunitaria dimenticando che il cuore dell’evasione e dell’elusione si trova in veri e propri paradisi fiscali interni all’Unione (Olanda, Irlanda, Lussemburgo) che potrebbero concentrare ulteriormente il loro potere di attrazione su multinazionali in fuga da condizioni fiscali svantaggiose.
Secondo Reuters, altri tributi potrebbero includere una tassa sulla plastica non riciclata e sui beni importati nell’Ue da paesi con standard di lotta ai cambiamenti climatici meno ambiziosi. Allo studio anche un sistema di scambio di quote di emissioni di anidride carbonica dell’Ue nei settori marittimo e aereo.
Insomma il Recovery Fund va oltre il principio di indeterminazione di Heisenberg. Di una particella non si possono conoscere contemporaneamente la velocità e la posizione precisa. Del fondo NextGen si ignorano data effettiva di inizio e modalità di finanziamento. Un pericoloso terno al lotto. “Si sa che verrà finanziato con “risorse proprie”, cioè nuove tasse a carico dei cittadini italiani che provengono direttamente dai bilanci dei 27 Stati membri; ma il problema è che ancora non sappiamo quali di preciso siano, queste tasse”, commenta critica l’eurodeputata leghista Mara Bizzotto, capodelegazione del Carroccio a Strasburgo.
Non esiste alcun documento vincolante, solo una previsione di roadmap ipotizzata dal Consiglio Europeo e dal Parlamento Ue a novembre, analizzata da Today: “la roadmap delle nuove tasse prevede in effetti una plastic tax a partire dal 2021, una carbon tax dal 2023 basata sul sistema di scambio delle quote di emissione di carbonio (ETS) e un prelievo sulle imprese digitali dal 2024. A partire dal 2026 si prevede invece un’imposta sulle transazioni finanziarie (ITF) e un contributo finanziario legato al settore delle imprese”. Nessuna certezza sulla reale volontà politica di creare subito questi nuovi tributi o di anticiparne, in alcuni casi, l’effettiva entrata in vigore.
Tasse di carattere europeo colpirebbero più duramente quei Paesi, come l’Italia, già penalizzati dalla competizione fiscale interna e favorirebbero invece la rendita di posizione di paradisi fiscali e “pirati” fiscali. Col paradosso che l’Europa preleverebbe gli utili generati, anche in Italia, da società operanti in settori che in caso di tassazione comune europea sarebbero ancora più incentivate a fuggire verso i paradisi fiscali. Il tutto mentre il Recovery Fund assomiglia sempre di più a un Godot il cui arrivo è dilazionato a data da destinarsi. Un bel pasticcio, se pensiamo che questo progetto è stato presentato come il piano per dare un futuro all’Europa. E pensare che il governo giallorosso ha avallato con leggerezza il “via libera” a un pacchetto di misure potenzialmente dannoso per l’Italia dà l’idea dell’ingenuità politica in campo comunitario dei partiti che compongono il governo Conte II.