Quando nel giugno 2016 il referendum sulla Brexit portò alla clamorosa vittoria del “Leave” gli occhi di tutto il mondo furono puntati sul principale motore dell’economia del Regno Unito, la City di Londra. I più feroci critici della Brexit affermarono con una certa dose di sicurezza che la conseguenza più immediata dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea sarebbe stata una massiccia fuga di capitali e il crollo della City, ridimensionata nel rango e nel prestigio rispetto alle altre principali borse del pianeta. Considerazioni estremamente semplicistiche, che nel corso del lungo processo negoziale condotto dai governi di Theresa May e Boris Johnson mai si sono concretizzate, per quanto il futuro del Regno Unito come attore autonomo del mondo globalizzato resti ancora tutto da decifrare.

Mentre sul piano geopolitico e strategico Londra ha deciso da tempo di percorrere la pista atlantica nella direzione di un più stretto collegamento con gli Stati Uniti, negando in un certo contesto gli stessi presupposti della Brexit, sul piano finanziario il tramonto della City è ancora ben lungi dall’essere osservabile. Dopo quattro anni abbondanti di negoziati, un accordo Londra-Bruxelles oggi messo in discussione e un’uscita del Regno Unito che va perfezionandosi settimana dopo settimana il London Stock Exchange gode ancora di buona salute, forte di un ambiente favorevole legato a condizioni preesistenti al momento della Brexit. Gli inglesi ritengono si possa applicare alla finanza la legge di Wimbledon: non importa la nazionalità dei giocatori, il tennis che conta si gioca qui. E non hanno in fin dei conti torto.

In Europa è da tempo in corso un grande gioco di riformulazione delle alleanze borsistiche nell’ottica di trovarsi preparati per rappresentare la reale forza concorrente di Londra nel momento in cui la Brexit diventerà completamente realtà e in vista della costituzione di nuovi equilibri economici nell’Unione Europea. Lse ha messo in vendita Piazza Affari, acquisitia nel 2007, contesa tra il listino a guida francese Euronext e la tedesca Deutsche Borse; Six, capofila della borsa di Zurigoha comprato il listino di Madrid, mentre la stessa Londra ha respinto una proficua offerta proveniente da Hong Kong. Bisogna tuttavia ricordare che a scatenare questo risiko è stata l’offerta da 27 miliardi di dollari di Lse per la piattaforma dati più importante in circolazione, Refinitiv, che consoliderà la pervasività della potenza finanziaria britannica.

E come riportano i dati del Financial Times, questa potenza non è nemmeno più (solo) una questione di capitalizzazione delle società presenti nell’ambiente londinese: già nel 2016, ad esempio, un eventuale listino frutto della fusione tra Londra e Francoforte avrebbe avuto un peso relativo superiore della capitalizzazione tedesca. Londra è la finanza perchè alla finanza può offrire quell’ambiente dinamico e favorevole che in Europa può essere garantito solo da alcune piazze, artificiose come il Lussemburgo o poste in Paesi extra-Ue come la Svizzera, che per loro stessa natura si costituiscono come nicchie. I derivati scambiati nella City hanno sfondato quota 150 miliardi di dollari nel 2019; i conferimenti equity alle società sono oltre quota 30 miliardi; soprattutto, nota il quotidiano che della City è espressione, Londra concentra in un contesto unico quello che in Europa Parigi, Francoforte, Amsterdam, Lussemburgo e Dublino frammentano.

Analogamente al Lussemburgo e all’Irlanda il Regno Unito offre vantaggi fiscali, contesto normativo snello e una sostanziale rilassatezza di controlli sui movimenti di capitali; come a Parigi e Francoforte, a Londra si preparano anche le grandi operazioni e i grandi investimenti dei maggiori gruppi finanziari e industriali del pianeta; inoltre, Londra è la clearing house più importante in cui i derivati prezzati in euro, la cui massa complessiva era calcolata a fine 2018 in 735 trilioni di euro, possono essere “compensati” e scambiati con titoli in altre valute o certificati legati a materie prime. Aggiungiamo a questo i legami privilegiati di Londra con i finanzieri russi, cinesi e indiani, il peso crescente della finanza islamica e l’ombelicare legame transatlantico e il quadro è quasi completo. Per terminarlo, aggiungiamo che Londra garantisce alla City un’autonomia de facto, la garanzia di una sostanziale extraterritorialità per il “Miglio quadrato” che, in un fazzoleto di terreno concentrato attorno a Lombard Street, garantisce tra il 2,5% e il 3% del Pil al Regno Unito. Governata da una forma di amministrazione corporativa, retaggio di antichi privilegi risalenti al tardo Medioevo, in cui l’elettorato attivo non si basa solo sulla residenza ma è appannaggio soprattutto delle società private che hanno sede nella City e che nominano i loro rappresentanti elettori, essa è un vero e proprio Stato nello Stato.

Londra, da quando ha vinto la corsa con Parigi per diventare capitale della finanza mondiale tra XIX e XX secolo, vive di una sostanziale e decisiva rendita di posizione nel Vecchio Continente. Non lo cambierà la Brexit, per quanto gli indirizzi politici del Regno Unito e quelli finanziari della City possano trovarsi presto a scontare due diversi gradi di autonomia. Enorme e capace di auto-alimentarsi quella della City, polo finanziario di portata globale; sempre più modesta quella di un Regno Unito il cui progetto politico di Brexit sembra sempre di più nato vecchio e che, al pari dei Paesi dell’Europa continentale, è destinato a un ridimensionamento negli scenari internazionali.





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