Più che Iva, andrebbe chiamata idra. Le “clausole di salvaguardia” sull’Iva annesse alle leggi di bilancio italiane sono diventate il principale macigno che, dal 2011 in avanti, grava sulla politica italiana in ambito economico. Un governo può sterilizzarle per un anno trovandosi di fronte al dilemma su cosa fare nel biennio successivo.
Vale per il governo Conte II, che nella legge di bilancio ha sanato le clausole per il 2020 senza però mettere mano a quelle per il 2021 e 2022 che richiederanno un esborso complessivo di 47 miliardi di euro.
Come funzionano le clausole di salvaguardia? Il governo, in fase di stesura della legge di bilancio, fissa delle previsioni di incasso del’Iva, proietta sugli anni a venire lo sviluppo del ricavo da tassazione dei consumi, dal taglio alla spesa e dalle maggiori entrate fiscali fissando soglie ben precise. In caso di mancato raggiungimento dei saldi o di copertura della quota prefissata, le clausole di salvaguardia fanno scattare in automatico tagli a sconti fiscali o aumenti Iva per un importo predeterminato. Il valore della clausola di salvaguardia è dato dalla somma tra il taglio agli sconti fiscali e l’extra-gettito previsto dall’aumento delle aliquote sul valore aggiunto.
L’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha recentemente raccontato in una lettera a Italia Oggi la genesi delle clausole di salvaguardia nella tormentata estate 2011che vide il governo Berlusconi IV ritrovarsi sotto il fuoco dello spread e nel mirino delle istituzioni europee che chiedevano politiche restrittive in materia di bilancio. Il “Decreto di Ferragosto” impostato da Tremonti fu modificato, su insistenza europea, includendo la clausola sull’Iva che, scrive l’ex ministro, “era totalmente priva di valore giuridico non producendo effetti vincolanti e specifici (come è invece stato dopo per le altre e vere clausole) esaurendosi nella forma di un impegno politico-programmatico”, formalizzato solo dopo l’avvicendamento a Palazzo Chigi tra Berlusconi e Mario Monti.
Monti e, dopo di lui, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e Giuseppe Conte hanno messo nero su bianco le clausole di salvaguardia in ogni manovra. Per poter strappare più facilmente il via libera comunitario, salvo poi doversi ritrovare a chiedere flessibilità o extra-deficit per coprire le clausole di salvaguardia pattuite. Oppure, nel caso del Conte gialloverde, per concludere la trattativa con Bruxelles.
Il copione è stato ripetuto: clausole Iva in manovra, previsioni di aumenti notevoli della tassazione in caso di inadempimento, aumenti effettivi dell’aliquota (dal 20 al 21% nel 2011, dal 21 al 22% col governo Letta), traballamenti delle aliquote agevolate, dibattiti tra forze di maggioranza per completare la corsa alla sterilizzazione delle clausole.
Monti e Letta optarono per una strategia di graduale ricerca delle risorse strada facendo. Invece, scrive Il Sole 24 Ore, “con l’ arrivo a palazzo Chigi di Matteo Renzi nel febbraio del 2014, si inaugura un triennio in cui la sterilizzazione e sostanziale rinvio all’anno successivo delle clausole Iva viene realizzato per parte rilevante attraverso il ricorso alla flessibilità europea, sotto forma di un incremento del deficit. In tal modo vengono reperiti 3 miliardi per il 2015, 7 miliardi per il 2016 e 10 miliardi per il 2017, a fronte dell’ introduzione di nuove clausole per 12,8 miliardi nel 2016, 19,2 nel 2017 e 22 miliardi nel 2018”.
Presentare una maggiore flessibilità come conquistata fu ritenuto politicamente opportuno da un Renzi timoroso dell’insorgenza delle forze euroscettiche, ma alimentò un circolo vizioso. I deficit che si sarebbero resi necessari per un forte stimolo alla domanda interna finirono per essere impiegati per sterilizzare l’Iva. Il governo Gentiloni e quello Conte hanno seguito a ruota, amplificando lo scaricabarile allora inaugurato. Nonostante le clausole Iva non fossero necessarie, divennero gradualmente un utile paravento per coprire la mancanza di progettualità della politica economica. Dilatandosi anno dopo anno per trasformarsi da fardello in macigno. Cambiano i governi, ma non le prassi. Mentre nel frattempo i gridi d’allarme dell’economia reale sono sempre, impietosamente meno ascoltati.