La crisi del coronavirus ha impedito che il mondo della finanza e della sua governance avviasse una transizione oltre la fase del quantitative easing globale, che per un decennio ha garantito una vera e propria inondazione di liquidità alle borse e ai mercati di tutto il mondo. Quella che doveva essere una risposta emergenziale legata alle problematiche della Grande Recessione e al fallimento del dogma neoliberista dell’autoregolazione dei mercati si è trasformato in un new normal, in una tendenza consolidata.

Nel corso di dieci anni, da Bernake a Draghi, i banchieri centrali di tutto il mondo si sono mobilitati: dal Troubled Assets Relief Programm (Tarp) statunitense del 2008 al quantitative easing della Bce, passando per la Abenomics del governo conservatore giapponese, il solo trio costituito da Bce, Federal Reserve e Bank of Japan ha visto i suoi asset superare a fine 2018 i 15 trilioni di dollari, 3,5 volte la somma registrata nel 2008, come fatto notare in un rapporto della società di consulenza Yardeni Research.

Liquidità a cascata, tassi d’interesse bassi, via libera alla sardana delle borse che hanno conosciuto giochi finanziari spericolati e un incremento continuo delle quotazioni, interrotto solo a metà 2018 per pochi mesi, mano a mano che il torrente di denaro si allontanava dall’economia reale e prendeva le direzioni più prevedibili tra comparto azionario e strumenti derivati. Questo ha prodotto capitalizzazioni record, elementi come la corsa record di Wall Street cavalcata dall’amministrazione Trump e dividendi azionari senza precedenti alimentati dal fenomeno dei buyback, ma anche una grande instabilità legata principalmente all’esplosione del debito privato.

Tutto sembrava lasciar presagire l’inizio del riflusso prima che il cigno nero del coronavirus giungesse a perturbare il sistema finanziario mondiale. “Per permettere agli Stati di finanziarsi durante questa crisi, le banche centrali si sono spinte ancora più in là, sprofondando un po’ di più in questa nuova era monetaria dove il denaro è quasi gratuito”, ha scritto Le Monde in un articolo tradotto in Italia da DagospiaIl tema centrale è ora capire quanto la crisi costringerà decisori politici e operatori finanziari ad assecondare le tendenze dell’ultimo decennio.

La necessità di garantire liquidità alle imprese, di mettere in campo vere e proprie campagne di salvataggio di massa (bail-out) dei comparti più a rischio e a quelli paralizzati dalla pandemia, dall’aeronautica civile al settore alberghiero e del turismo, le misure di sostegno al reddito e l’helicopter money messa in campo in più contesti nel mondo hanno imposto uno sforzo senza precedenti in termini di politica fiscale e di stimolo monetario. L’abbattimento del costo del denaro che ne è seguito ha spostato di conseguenza il baricentro della convenienza verso l’indebitamento, dato che quest’ultimo processo ha preso a farsi sempre più conveniente in termini di costo e d’interesse. Mario Draghi ha invitato gli Stati a sdoganare la carta del deficit pubblico: ma il rischio è che esso finisca per diventare il paravento per la socializzazione delle perdite dei comparti meno performanti, mentre il  processo di privatizzazione degli utili dei vincitori della crisi, principalmente nel comparto tecnologico, prosegue inesorabile.

I tassi negativi sui depositi, il calo dei rendimenti dei titoli di Stato (il Bund è in negativo e a marzo la curva dei Treasury statunitensi è scesa per la prima volta sotto l’1% di rendimento su tutta la gamma) e le incertezze sugli investimenti invitano consumatori, famiglie e imprese a spingere sulla leva del debito. Questo crea problemi di sostenibilità in un contesto già incerto: “Secondo Invesco, il debito cumulato dagli Stati, dalle famiglie e dalle imprese delle 25 principali economie mondiali è passato dal 150% del prodotto interno lordo (PIL) degli anni ’80 a quasi il 250% di oggi”. Si rischia, dopo la crisi, un circolo vizioso: le banche centrali rimarrebbero vincolate alla necessità di emettere denaro per mantenere questo equilibrio precario, mentre i debiti privati cumulati nel corso dell’emergenza e della recessione si troverebbero sub judice in caso di esplosione della bolla monetaria o di nuova caduta dell’economia reale.

In un certo senso il coronavirus ha “salvato” temporaneamente la finanza mondiale fornendo la giustificazione per la ripresa massiccia del circolo vizioso tassi bassi-liquidità-debito privato: ma in un contesto di tracollo dell’economia reale questo potrebbe scaricare il bazooka della politica monetaria e depotenziare la leva della politica fiscale. Lo stanno sperimentando gli Stati Uniti, ove il Nasdaq corre nonostante il tracollo del Pil e dell’occupazione: la crescita vertiginosa disuguaglianze tra Wall Street e Main Street, tra alta finanza e mondo dell’economia reale, tra coloro che possono sostenere alti livelli di debito anche oltre l’emergenza e chi senza l’attuale convergenza si troverebbe gambe all’aria, rischia di essere insostenibile sul lungo periodo. E di alimentare nuove bolle e nuove instabilità. Rendendo di fatto vano ogni sforzo delle banche centrali portato avanti dopo la Grande Recessione. Se il contagio finanziario dovesse esplodere nei prossimi mesi e anni, al confronto, la botta seguita al tracollo di Lehman Brothers potrebbe sembrare paragonabile a un incidente di percorso.