Quando, nel marzo 2001, la Bank of Japan guidata dal navigato Masaru Hayami annunciò il cambio di strategia monetaria e avviò quello che può a ben diritto essere considerato il primo quantitative easing della storia contemporanea nessuno poteva immaginare che la mossa decisa a Tokyo sarebbe ben presto divenuta la normalità in tutto il pianeta. Reduce dal “decennio perduto” che aveva smorzato l’entusiasmo per una locomotiva economica che al volgere degli anni Novanta immaginava il sorpasso sugli Stati Uniti, intrappolato tra la stagnazione, la deflazione e l’inizio del declino demografico, il Giappone intravide nella politica monetaria il viatico ottimale per lo stimolo alla domanda aggregata del Paese. Aumentando la sua base monetaria, la BoJ inondò il sistema nazionale di liquidità a basso costo per stimolare l’attività economica, promuovere gli investimenti e spingere la crescita dell’inflazione.
L’Abenomics, fondata sulla leva monetaria, era ancora ben al di là dall’essere concepita; l’accumulazione di fattori di crisi che avrebbero portato alla Grande Recessione nel 2007 impedì alla manovra nipponica di dispiegarsi nel migliore dei modi. Tuttavia, in un’epoca in cui Mervyn King, governatore della Banca d’Inghilterra, affermava che “una Banca Centrale di successo dovrebbe essere noiosa”, prevedibile e focalizzata sul tasso di interesse a breve termine, la mossa rappresentò una scossa di non secondaria importanza. Una previsione di quanto sarebbe accaduto dopo la Grande Recessione, in cui le banche centrali valorizzate come “quarto potere” delle democrazie occidentali avrebbero acquisito il centro della scena nella risposta alla crisi.
“In questi 12 anni le tre principali banche centrali del mondo, la Bce, la Fed Usa e la Banca del Giappone (BoJ), hanno espanso il proprio bilancio di circa 17mila miliardi di dollari”, fa notare Il Fatto Quotidiano in un’analisi che elogia le banche centrali per il ruolo giocato nella risposta al decennio più problematico dell’economia mondiale nel secondo dopoguerra, alla cui conclusione la pandemia di coronavirus ha aggiunto un nuovo, grave fattore di incertezza.
Dopo lo shock della grande recessione, i mercati finanziari si trovavano in affanno, in quanto epicentro del sisma, e la politica economica si era smarrita, senza bussola, dopo aver per anni favorito a colpi di deregolamentazioni e favoritismi il gioco degli “animal spirits” che aveva creato la Grande Recessione. Inoltre, la necessità di salvare il sistema finanziario costrinse gli Stati a creare voragini enormi nei propri bilanci, spingendo a livelli problematici il debito pubblico e sottraendo risorse alla normale politica di risposta alla crisi materiale dell’economia reale. Restava, terzo pilastro, la politica monetaria appannaggio di banche centrali sempre più indipendenti dal potere politico.
Già in passato grandi figure di banchieri centrali avevano segnato svolte fondamentali nella politica monetaria ed economica internazionale: negli Usa, nel 1979, Paul Volcker, governatore della Fed, impose un drastico aumento dei tassi che pose fine al compromesso keynesiano e preparò, col rientro in patria di grandi capitali, la rivoluzione neoliberista targata Ronald Reagan. In Italia i lunghi decenni della Prima Repubblica sono stati accompagnati dalla presenza della figura dello storico governatore della Banca d’Italia Guido Carli, il banchiere nato a Brescia che giocò un ruolo chiave nell’evoluzione delle dinamiche politiche nazionali fino alla firma del Trattato di Maastricht da lui completata come ministro dell’Economia.
Ora però il protagonismo dei banchieri centrali è ancora più accentuato. A partire da Ben Bernanke, alla guida della Fed durante la risposta alla crisi, per arrivare a Mario Draghi, Jerome Powell, Jens Weidmann, i banchieri centrali hanno assunto un ruolo sempre più spiccatamente visibile nei processi decisionali. Carli, lavoratore instancabile e personalità schiva, poteva permettersi, forte della sua credibilità, di parlare in maniera ieratica quando necessario, soprattutto in occasione delle comunicazioni finali, conscio di un forte dialogo della sua istituzione con la politica. Ora, nell’ultimo decennio è sembrato che le banche centrali siano diventate esse stesse una centrale decisiva di elaborazione politica. Lo abbiamo visto in Europa, in particolar modo, durante l’era Draghi: parafrasando Carl Schmitt, la politica monetaria della Bce ha risolto lo “stato d’eccezione” della crisi dei debiti, o perlomeno l’ha annacquato, conferendo al banchiere romano il ruolo di autorità sovrana più importante d’Europa durante la sua permanenza all’Eurotower.
Il mezzo dell’ascesa delle banche centrali è stato lo sdoganamento completo del quantiative easing, fattosi globale e dinamico. I mercati mondiali e la politica economica si sono adeguati a considerare normale il diluvio di liquidità emesso dalle principali banche centrali con l’obiettivo di unire al rilancio dell’inflazione una strategia a tutto campo destinata a favorire o perlomeno a evitare l’affondamento a un’economia reale messa a repentaglio dal blocco del mercato interbancario, dal crollo dei prestiti e dei finanziamenti, dalla stagnazione della produzione.
Il protagonismo delle banche centrali ha aumentato la visibilità dei loro leader, ogni appuntamento sull’aggiornamento dei tassi di interesse è divenuto uno snodo cruciale per le economie interessate da questa politica, ogni annuncio di nuovi piani di Qe ha galvanizzato governi e imprese. Le banche centrali, aumentando i loro bilanci, assorbivano senza freni titoli di debito pubblico, obbligazioni corporate, titoli bancari. In risposta alla crisi del coronavirus la Fed statunitense ha passato definitivamente il Rubicone arrivando alla completa monetizzazione del debito creato dal governo per rispondere all’emergenza economico-sanitaria, comprendente misure di helicopter money. Christine Lagarde, successore di Draghi alla guida della Bce, con una semplice gaffe sugli spread è stata in grado di far volatilizzare dai mercati europei 825 miliardi di euro in una sola giornata il 12 marzo scorso. Due esempi del genere segnalano la pervasività delle banche centrali nella vita politica ed economica dei principali Paesi del pianeta. Di cui possiamo trarre un bilancio, per quanto non ancora completo, già significativo.
Da un lato, le banche centrali hanno avuto il pregio della tempestività. Di fronte a crisi epocali, sviluppatesi in poche settimane, le scelte di immettere grandi quantità di liquidità per tamponarne gli effetti si sono spesso rivelate vincenti. Analogamente, data la lunga durata dei loro piani, le banche centrali hanno costruito una forte e durevole credibilità.
Di contro, senza il sostegno della vera politica economica la risposta monetaria resta asimmetrica. Le banche centrali non possono finanziare posti di lavoro, investimenti, piani di sviluppo, ma contribuire a creare il contesto ottimale perchè essi prendano forma. Molto spesso la politica ha volutamente abdicato alle sue responsabilità a favore dell’alibi monetario: la cerimonia di saluto a Mario Draghi nello scorso autunno ha visto i leader europei rendere omaggio a un leader che, in un certo senso, ne ha “emendato” le colpe che rischiavano di far naufragare l’euro. Inoltre, il Qe globale è forse andato troppo oltre, creando un’eccessiva accumulazione debitoria tra gli operatori privati e non venendo in alcun modo dirottato verso una sana politica per l’economia reale, restando confinato nelle gore morte della finanza speculativa.
In conclusione, dunque, possiamo dire che il new normal economico-finanziario, a partire dalla svolta giapponese di vent’anni fa, vede la banca centrale come attore dinamico e propositivo; al contempo, è la politica reale a dover reclamare e riconquistare spazi che in passato, troppo spesso, ha volutamente concesso in gestione a terzi. La politica monetaria è una parte, non il tutto: e quei leader che per deresponsabilizzarsi hanno ignorato questo semplice dato hanno contribuito ad acuire, piuttosto che risolvere, le asimmetrie della governance globale del sistema economico.