L’anno in corso sta prospettando per l’Italia scenari di ripresa economica decisamente robusti dopo un 2020 da profondo rosso e il vento in poppa delPiano Nazionale di Ripresa e Resilienza impostato dal governo Draghi può garantire ulteriore slancio alla crescita del Pil e dell’occupazione. Ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e nel contesto interno e globale sono diverse le pressioni che possono esercitarsi per porre delle limitazioni alle prospettive di ripresa del Paese.

L’esecutivo ha impostato una strategia chiara fondata su pochi, ma decisi principi: passaggio dalla logica del ristoro delle perdite da chiusura per le attività soggette a restrizioni a quella dell’investimento per la crescita; rafforzamento delle leve strategiche dello Stato (partecipate in testa) per coordinare al meglio la ripresa utilizzando le armi a disposizione dell’apparato pubblico per creare una volano nel contesto privato; utilizzo del Pnrr come punto di partenza per incardinare sul medio-lungo periodo le politiche economiche. L’effetto è stato sino ad ora positivo soprattutto sul versante della fiducia di lavoratori e imprese, ma andrà valutato alla luce delle contingenze.

Sono almeno tre le questioni che il mondo dell’economia deve tenere strettamente sott’occhio, e corrispondono ad altrettante sfide che il Paese dovrà valutare nel corso del 2021. Esse hanno a che fare in particolar modo con la tenuta delle imprese, rivelatesi sino ad ora il vero e proprio motore della ripresa nazionale.

La prima è la questione delle “cicatrici” della crisi del Covid-19 sulle società, manifestatesi sotto forma di un deciso aumento del debito corporate in tutta la filiera nazionale. L’eredità del governo Conte e di un anno di politiche economiche non pienamente soddisfacenti hanno decisamente condizionato la partenza dell’era Draghi: a febbraio i dati della Banca d’Italia sottolineavano che i decreti governativi emanati dai giallorossi avevano abbassato da 142mila a 100mila le imprese a corto di liquidità e da 48 a 33 miliardi di euro il fabbisogno, ma di fronte alle imprese si aprivano i rischi legati a una destrutturazione del tessuto produttivo per le nuove chiusure. Ora in uno studio Cerved mostra che i progressi della campagna vaccinale hanno ridotto al 18,7% la quota di aziende ad alto rischio di default ma i debiti extra generati durante la pandemia ammontano, per il mondo aziendale italiano, a complessivi 90 miliardi di euro. Il punto è da guardare con attenzione perché in futuro sarà necessario che l’Italia risolva i problemi della cronica sottocapitalizzazione e dell’eccessiva dipendenza dal cash flow delle sue imprese, anche delle più produttive nel comparto delle Pmi.

Se il debito è problema di stato patrimoniale, i costi di gestione sono questione di conto economico. E veniamo dunque alla seconda problematica: le pressioni inflazionistiche legate all’aumento dei prezzi delle materie prime energetiche, la corsa ai massimi storici del prezzo del gas in Europa e l’aumento del dispendio di cittadini e imprenditori per la generazione elettrica hanno generato questioni facilmente intuibili e problematiche non secondarie. Come scrive Repubblica “Draghi”, negli ultimi decreti, “ha stanziato 1,3 miliardi di euro da spalmare sulle bollette” per contenere costi e esternalità negative. “Se non ci fosse stato” questo intervento “l’aggiornamento trimestrale delle tariffe (+9,9% per il gas, +15,3% per l’elettricità) avrebbe raggiunto punte di aumento del 20%”. E a questi dati non si possono non aggiungere quelli sul prezzo del petrolio, che impatta sulla logistica e i trasporti. Lungi dall’esser prossimo alla morte, “Re Petrolio” continua a tenere banco. Il Brent europeo dal 30 giugno 2020 al 30 giugno 2021 è passato da 42 a 76 dollari al barile; discorso simile per il Wti americano, passato da 39 a 75 dollari negli ultimi dodici mesi. Nei prossimi mesi si vedranno nei bilanci delle imprese, direttamente o indirettamente, gli effetti di queste problematiche. E nuovi interventi per calmierare gli effetti dei rincari da parte della politica non sono da escludere.

Infine, vi è una questione d’ordine sociale connessa alla riapertura ai licenziamenti e alla fine graduale delle misure di Cassa integrazione in deroga. L’accordo trovato a Palazzo Chigi recentemente indica certamente un processo graduale per cui le aziende prima di licenziare si impegnano a utilizzare strumenti di cassa integrazione, ma la questione è da monitorare attentamente. Specie se si assisterà a fenomeni di chiusure di impianti e stabilimenti privi di un preavviso tale da consentire ai lavoratori di prepararsi a una exit solution. Probabilmente i livelli di 2-300mila licenziamenti complessivi inizialmente temuti non si manifesteranno, ma vi saranno settori in cui la distruzione di posti di lavoro sarà più impattante. Questo fenomeno è forse il più rischioso in potenza, perchè manderebbe messaggi in piena controtendenza con il clima di ripresa e fiducia che si è diffuso nel Paese. E aprirebbe una faglia tra aree del mondo del lavoro tutelate e ben presidiate e settori in cui le ristrutturazioni aziendali possono portare alla crescita di una quota di lavoratori o ex dipendenti sfiduciati e a incertezze di mercato e investitori verso i settori in cui eventuali licenziamenti si concentreranno. Con il rischio concreto di un “autunno caldo” come quello del 2020.

Al governo Draghi il compito di continuare sul sentiero del pragmatismo, rafforzare gli investimenti, accelerare la crescita del Pil e dare attuazione al Pnrr. La lezione di John Maynard Keynes è più viva che mai: la crescita e la programmazione strategica sono il vero antidoto alle minacce per l’economia. Che, specie se ancora non pienamente concretizzate, possono essere affrontate con fiducia.





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