Il Covid-19 ha colpito il settore dei trasporti in modo sensibile. Ma dopo la grande emergenza, tanti esperti sottolineano il rischio che le proteste contro il green pass mettano in pericolo la rete infrastrutturale e della logistica italiana. Proteste che non rappresentano certo la totalità degli addetti ai lavori, tantomeno la loro maggioranza, ma che possono incidere in tutti i settori commerciali. Perché nascono nei due settori chiavi dei porti e degli autotrasportatori. Ingranaggi fondamentali di una macchina che lega tutta l’Italia e l’Europa e spesso poco considerati nel dibattito politico.

Ma perché un blocco a Trieste o a Genova può incidere così tanto nell’economia italiana? E cosa mette a rischio la rete infrastrutturale nazionale? Per capirlo bisogna partire da lontano, comprendendo quali sono i problemi della rete infrastrutturale e i rischi dei ritardi.

I porti, chiavi per l’import-export italiano

La questione dei porti in Italia è essenziale. È dal mare e verso il mare che passa la maggior parte del traffico che coinvolge il mercato italiano. Un elemento imprescindibile vista la geografia italiana, penisola proiettata nel Mediterraneo e al centro di questo bacino marittimo. Ma come spesso accade per diversi settori, anche i porti peccano di assenza di sinergia, campanilismo e dei gangli della burocrazia. Un dato su tutti: il porto di Rotterdam movimenta lo stesso numero di merci (valutate in TEU) di tutta l’Italia, ma l’Italia ha 58 porti che svolgono questo servizio. Un rapporto che fa riflettere.

Il tema diventa strategico se si pensa al ruolo che il trasporto marittimo riveste nel Mediterraneo. L’ingresso delle portacontainer cinesi e il raddoppio del Canale di Suez hanno provocato un aumento del traffico mercantile che è stato colto solo da molti porti europei organizzati anche da una strategia a livello statale. Strategia che in Italia, anche per questioni campanilistiche, è spesso mancata. Il risultato è che la sfida al Northern Range, ovvero i grandi porti del Nord Europa, non vede protagonisti gli scali italiani, ma al limite quelli di Atene, di Barcellona, di Algeciras, Tangeri e Port Said. Una prospettiva che conferma l’assenza di una prospettiva unitaria da parte di un intero sistema politico e produttivo.

Vero è, come spiegato da Rosario Pavia per Ispi, che “la geografia e la storia contano: l’Italia è il Paese dei cento campanili e dei cento porti intimamente intrecciati tra loro in contesti estremamente diversificati”, tuttavia rimane il dubbio che non si colgono determinate opportunità (previste anche dal Pnrr), i porti rischiano un clamoroso flop nonostante l’avvento del “Secolo Blu” e della globalizzazione che passa dal mare. L’assenza di una strategia che sganci i terminal italiani dalla dipendenza dagli scambi energetici e dal mercato interno è quindi fondamentale. Ma già solo l’esistenza di 16 autorità portuali rispetto alle poche di altri Paesi è un elemento che rischia di far naufragare alcune aspettative di crescita che i numeri di Gioia Tauro, Trieste e Genova avevano in qualche modo esaltato.

Il nodo dei trasporti su gomma

Al tema degli scali si deve poi legare il nodo dei trasporti e di tutta una rete infrastrutturale collegata al terminal marittimo. La minaccia delle proteste contro il green pass ha acceso i riflettori sull’importanza strategica dei grandi porti, ma non va sottovalutato l’altro problema che riguarda il trasporto delle merci dai porti – che movimentano gran parte della merce – e dalle frontiere. Ed è un trasporto che in larga parte avviene su gomma.

Un dettagliato rapporto di Isfort (Istituto superiore di formazione e ricerca per i trasporti) e di Confcommercio aveva già evidenziato nel 2019 la difficoltà di attrarre traffico aggiuntivo dai sistemi portuali proprio per il trasporto interno. Nel rapporto si legge che “il gap dei porti riguarda la connessione verso i mercati terzi, non a caso i porti italiani servono sostanzialmente le realtà produttive non solo nazionali, ma soprattutto collocate nelle immediate vicinanze del porto”. Questo, secondo il rapporto citato, non è tanto legato alla quantità di chilometri di ferrovie e di strade, in linea con Francia, Germania, Regno Unito o Spagna, ma è un problema che nasce dalla cosiddetta “accessibilità”, cioè dalla capacità del sistema di trasporti di collegare diversi territori.

In un Paese dove da tempo si denuncia la carenza di manodopera nel settore degli autotrasporti, il problema diventa quindi duplice: manca personale e manca l’infrastruttura. E non è solo un problema di lavoratori non vaccinati e che non possono accedere sui luoghi di lavoro (circa un terzo in base a quanto ricordato da Il Sole 24 Ore), ma si parla di migliaia di posti scoperti che rischiano di bloccare l’intera filiera produttiva e commerciale. Una miscela esplosiva che, se unita alla scarsa efficienza dei trasporti interni, dei controlli e dei costi rivela un sistema debole e a rischio di paralisi.

Il nodo delle ferrovie

Resta poi il nodo del trasporto su rotaia, con cui porti e autostrade hanno difficoltà ad essere collegate. Tanti terminal sono lontani dalle maggiori rete ferroviarie e questa infrastruttura sconta una carenza di rinnovamento che invece diventa ogni anno più urgente. Se aumentano le dimensioni delle navi portacontainer e aumenta il traffico negli scali portuali, deve aumentare inevitabilmente il trasporto su ferro, dal momento che gli autotrasportatori sono pochi e i camion inadeguati rispetto alla quantità di merci che potrebbero (o dovrebbero) giungere negli scali italiani.

L’Unione europea da tempo è intervenuta con l’idea delle “Autostrade del mare”, vie marittime che sono fondamentali nella logistica europea e mediterranea, e con quella dei corridoi paneuropei di trasporto, tra cui almeno quattro coinvolgono direttamente il Belpaese. Ma in assenza di una strategia complessiva, basta anche il rischio di una protesta o uno sciopero o l’assenza di personale per imporre una riflessione generale sul sistema italiano. La concorrenza è enorme e le opportunità sono spesso colte da altri. Lo dimostra il fatto che alla notizia delle proteste no pass a Trieste, in tanti hanno posto l’accento sulla deviazione dei cargo verso Capodistria e Fiume: dall’altra parte della frontiera c’è sempre qualcuno pronto a sostituire l’Italia.