L’avevano definita guerra sotterranea, un’appendice nascosta della ben più evidente Trade War in corso tra Stati Uniti e Cina. Questa contesa sembrava qualcosa di lontano, un affare a due tra Washington e Pechino, le uniche superpotenze sulla piazza. Nel giro di un anno, il tema dei semiconduttori ha finalmente scosso le coscienze dei leader europei.
Era l’ora, verrebbe da dire. Anche perché stiamo parlando di un braccio di ferro molto più vasto di quanto non si possa immaginare, che ruota principalmente attorno ai semiconduttori, ma che comprende anche le cosiddette terre rare (rispondono al nome di Rare Earth Elements quegli elementi chimici, come il lantanio, cerio e neodimio, diventati fondamentali per l’industria tecnologica ed elettronica moderna).
Nel gergo giornalistico, il testa a testa sino-americano appena descritto è stato fatto rientrare sotto la denominazione di “guerra del silicio”. In ogni caso, come detto, tutti i riflettori sono puntati sui semiconduttori. Di che cosa si tratta? Senza usare troppi giri di parole, i semiconduttori sono quei materiali che consentono agli smartphone e ai computer di funzionare in modo corretto. L’importanza della guerra del silicio – da alcuni definita anche Chip War, guerra dei chip, per riferirsi specificatamente ai semiconduttori – è strettamente collegata alla competizione tecnologica in atto tra Stati Uniti e Cina.
L’importanza dei semiconduttori
Il vincitore della guerra per i semiconduttori potrà godere di vantaggi inimmaginabili. Su tutti: ottenere il podio nella produzione dei suddetti semiconduttori, e quindi dei chip fondamentali per far funzionare le tecnologie più avanzate. Non solo dunque, smartphone e pc, ma anche strumenti potenzialmente impiegabili in ambito militare, come l’intelligenza artificiale e il 5G.
Il tema non è affatto nuovo. Basti pensare che già nel 2018 l’Economist scriveva che l’industria dei microprocessori, i “cervelli” dei computer e degli smartphone formati da uno o più circuiti integrati (chiamati anche microchip), sarebbe stata quella in cui “la leadership industriale americana e le ambizioni da superpotenza cinesi” si sarebbero scontrate “in modo più diretto”.
Merkel chiama, Macron risponde
A distanza di qualche anno, dicevamo, la questione è arrivata a toccare anche l’Europa. I primi a interessarsi dell’affare sono stati i tedeschi. Angela Merkel ha alzato la cornetta per mettersi in contatto con Emmanuel Macron. Facile intuire il contenuto della chiamata: unire le forze per accelerare lo sviluppo di un’industria europea dei semiconduttori.
La cancelliera, dopo aver fatto un paio di conti, ha capito che la contesa sino-americana sui semiconduttori potrebbe presto schiacciare Berlino e, di riflesso, tutta l’Europa. Nella peggiore delle ipotesi, alcuni tra i più importanti settori industriali della Germania – gli stessi che fanno ampio uso dei semiconduttori, in primis quello dell’auto -, potrebbero finire paralizzati per via della guerra Usa-Cina.
Le conseguenze dello scontro sino-americano
Se oggi i semiconduttori scarseggiano un po’ in tutto il mondo, la causa è da ricercare nella guerra commerciale dichiarata da Donald Trump alla Cina di Xi Jinping. Washington ha chiuso i rubinetti, imponendo alle sue aziende il divieto assoluto di vendere i preziosi materiali alle società cinesi. Joe Biden, successore di The Donald, non sembra affatto intenzionato a cambiare registro.
Pechino non è certo rimasta a guardare. Ha reagito, acquistando semiconduttori da altre nazioni. Risultato: 32 miliardi di dollari sborsati per accaparrarsi più macchinari possibili per produrre chip, con un bel +20% alla voce importazione del 2020 rispetto al 2019. In altre parole, la Cina è diventata così il più grande mercato mondiale delle attrezzature necessarie per produrre semiconduttori.
Il fatto, ha sottolineato Bloomberg, è che in questo modo le maggiori case automobilistiche sono rimaste improvvisamente a secco. Dalla giapponese Toyota alle tedesche Audi, Mercedes e Bmw, questo preoccupante stop ha allarmato la cancelliera Merkel. Meno semiconduttori significa produzione ridotta e, dunque, meno lavoro e impianti chiusi. Fin qui le case automobilistiche, con l’acqua alla gola, hanno bussato alla porta di Taiwan, che può vantare la Taiwan Semiconductor Manufactoring Co (Tsmc), un vero e proprio gioiellino che, tra le altre cose, fornisce i chip degli smartphone Apple.
La risposta dell’Europa
C’è tuttavia un piccolo, grande problema. La Tsmc, trovandosi a Taiwan, stretta alleata degli Stati Uniti, si sta dedicando per lo più a coprire le falle americane. Per l’Europa, insomma, non c’è posto. O meglio: non c’è posto a sufficienza. Da qui, la chiamata tra Merkel e Macron. Pare che l’Unione europea stia elaborando un piano dal valore di 30 miliardi di euro per raddoppiare dal 10 al 20% la quota europea sul mercato dei chip.
Obiettivo, questo, da conseguire tanto con investimenti pubblici quanto privati. Non solo: Bruxelles ha invitato Taipei a investire nei 27 Paesi membri, così da poter raggiungere l’autonomia tecnologica del continente nel settore dei chip. Almomento, ha ricordato Italia Oggi, Global Wafers Co ha offerto 4,4 miliardi di dollari per acquistare la tedesca Siltronic, con l’intenzione di dar vita al maggior produttore al mondo di semiconduttori per fatturato.