Non cessano, stando alle ultime rilevazioni, le difficoltà per il sistema bancario europeo. Gli analisti di Bloomberg hanno infatti sottolineato come anche il 2019 si prospetta come un anno difficile sotto il profilo dei ricavi e dei margini operativi per buona parte delle banche del Vecchio Continente, vessate dalla mancata ripresa economica e da un sistema di governance in passato troppo ondivago.

“Malato d’Europa” per eccellenza rimane la tedesca Deutsche Bank, rimasta scottata dal fallito tentativo governativo di fonderla con Commerzbank e colpita dalla carenza di prospettive di rilancio operativo, dalla marea montante di scandali che la hanno interessata negli ultimi tempi e dalla presenza di un vero e proprio “oceano” di derivati tossici entro i suoi bilanci. Deutsche Bank è arrivata a dover prospettare il taglio di 15-20mila posizioni lavorative per tentare un disperato recupero sui margini, ma è chiaro come questo difficilmente potrà impattare positivamente sul lungo periodo.

Ma Deutsche Bank rappresenta, in un certo senso, il caso estremo. L’ordinarietà parla di banche che faticano a generare utili, complici le politiche di bassi tassi della Banca centrale europea, l’assenza di stimoli diretti all’economia reale e la scarsa chiarezza sul piano politico e regolamentario.

Come scrive sul suo sito Bloomberg, “gli analisti di Jp Morgan guidati da Kian Abouhossein vedono il settore come “ostaggio” della politica espansiva della Bce e ritengono che ogni prossimo taglio dei tassi di sconto dello 0,25% impatterà mediamente in negativo per il 2% sui ricavi delle banche”. Chi, in questo contesto, potrebbe beneficiare della risoluzione di vecchie, annose problematiche è il settore bancario italiano. Preso di mira da vigilanza Bce e Commissione europea a lungo a causa del problema dei crediti deteriorati, vessato dall’applicazione del bail-in da parte del governo Renzi nel 2016 e riscattato solo parzialmente dalla sentenza Tercas che ha sconfessato numerose inadempienze compiute dall’Ue nei suoi confronti. Ma ora libero della zavorra nei crediti deteriorati e più pronto a sopportare stress e tensioni di varia indole e specie.

Come fa notare Dagospia, “i ricavi sono stabili a 82 miliardi di euro e gli utili in salita del 2%, grazie anche a una ‘spending review’ da 2,2 miliardi sui costi per il personale oltre che per minori accantonamenti e svalutazioni relativi a crediti deteriorati. Il segretario generale della FABI, Lando Maria Sileoni, ritiene che la presenza di fondi speculativi stranieri, con quote rilevanti, nell’azionariato delle banche italiane, crea “difficoltà agli amministratori delegati e al top management, che cercano risultati nel breve periodo senza una logica di lungo respiro. Si spiegano cosi’ i ricavi fermi”. Il sistema bancario italiano rispetto al resto d’Europa resta “comunque più solido”. E non è un caso che, tra gli istituti valutati, numerosi abbiano raccolto diversi elogi per la condotta seguita negli ultimi mesi.

Nella classifica delle banche europee per dividendi-yield, ovvero il rapporto tra l’ultimo dividendo annuo per azione corrisposto agli azionisti o annunciato e il prezzo in chiusura dell’anno di un’azione ordinari, Intesa San Paolo si è classificata al terzo posto dopo Nordea e Societè Géneralé con il 9,9%; Ubi Banca, scrive Milano Finanza, è stata elogiata per “i conti relativi al primo trimestre, in particolar modo la profittabilità, la stabilità dei margini di guadagno”, mentre Unicredit è ritenuta da Bloomberg la migliore banca in cui investire in Europa assieme a Barclays e alla Danske Bank libera dagli scandali che la collegavano a Deutsche Bank. Segnali incoraggianti che dovrebbero farci comprendere le potenzialità di un sistema produttivo che neanche un decennio di crisi ha saputo mandare in ginocchio.





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