I mercati vivono mesi frenetici, condizionati soprattutto dal cambio di passo delle banche centrali. Dopo aver, a metà 2018, invertito il trend globale che aveva visto un decennio pressoché ininterrotto di quantitative easing globale. Ovvero di immissione continua di liquidità nei mercati e nelle borse, senza che ciò imponesse un cambio di passo alle economie reali dei principali Paesi capitalisti ma producendo, al contrario, un’inflazione di ampia portata delle quotazioni e degli indici borsistici.
La conseguente caduta libera dei listini azionari verificatasi sino all’inizio del 2019 ha mostrato le criticità dell’azione condotta sino ad oggi e le profonde asimmetrie create dal suo brusco stop. I mercati si erano oramai abituati alla fase di “vacche grasse” garantita da emissioni a bassi tassi d’interesse e inflazione borsistica, e la sovrapposizione tra la fase di drenaggio di liquidità dalle borse e l’inizio del rischio di una recessione globale nell’economia reale e nel commercio ha causato il panico.
In questo contesto, ha sottolineato Mauro Bottarelli su Il Sussidiario, era possibile credere veramente “alla Fed che normalizza il suo bilancio, alla Bce che smette con il Qe, alla Bank of Japan che riduce gli acquisti e alla Pboc”, la banca centrale cinese, “che limita le iniezioni di liquidità alle mere esigenze interne, chiudendo fino a data da destinarsi il bancomat globale dell’impulso creditizio?”. Guardando al netto recupero degli indici azionari dopo l’inversione di tendenza, la risposta tende verso un secco no.
Il ritorno del Qe globale
E, infatti, da inizio 2019 “la Fed ha bloccato il rialzo dei tassi”, accontentando le richieste di Donald Trump, la Pboc ha iniettato nel sistema liquidità sotto forma di concessione di nuovi prestiti pari al 5% del Pil cinese” per favorire la strategia economica di Xi Jinping, “la Bce si appresta a dar vita ad aste di rifinanziamento a lungo termine per il sistema bancario, la Boj ha detto chiaro e tondo che se l’inflazione continuerà a restare debole e lo yen continuerà ad apprezzarsi è pronta addirittura a nuovo stimolo”. Un vero e proprio quantitative easing permanente appare una strada obbligata per le banche centrali. E non è affatto una buona notizia.
Le banche centrali hanno provato a ricattare i mercati con la restrizione monetaria, ma non sono riuscite a controllarli. Complice l’immissione di 20.000 miliardi di dollari nel sistema finanziario globale dalla Grande Recessione ad oggi, le quotazioni azionarie nell’area che comprende Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito e Giappone sono passate, complessivamente, da 30.000 a 80.000 miliardi di dollari. Un’inflazione tale da anestetizzare temporaneamente numerose problematiche che ora vanno surriscaldando l’economia reale: dalla pesante accumulazione debitoria, oramai largamente eccedente il Pil mondiale, al ricorrente tema dell’incontrollabilità dei derivati tossici che ingolfano i motori del sistema finanziario.
Le banche centrali non stimolano l’economia reale
Un acuto osservatore come Vito Lops, autore di punta del Sole 24 Ore, ha sottolineato che “bilanci delle banche centrali si sono gonfiati di titoli. Questi asset – solo considerando le banche centrali del G4 (Usa, Eurozona, Gran Bretagna e Giappone) rappresentano oggi il 36% del Pil di questa area economica allargata. Nel 2009 – quando il valzer dell’iniezione di liquidità non era iniziato – gli asset in pancia alle banche centrali erano inferiori al 10% del Pil”. Questo, unito al circolo vizioso borsistico, obbliga al quantitative easing permanente, ovvero “all’ammissione per le banche centrali di non poter più tornare indietro”, essendo queste ultime consce che “se ritirassero la liquidità immessa rischierebbero di creare una crisi molto più grave di quella innescata dalla bolla dei mutui subprime”.
Ma al tempo stesso del fatto che l’attuale scelta di politica economica è largamente inefficiente. Il Giappone, gli Stati Uniti e la Cina, in maniera molto parziale, sono riusciti a garantire piccole trasmissioni del credito all’economia reale ma, per quanto concerne le economie occidentali, tale stimolo è stato insufficiente. La Bce di Mario Draghi non dispone degli strumenti per supportare una politica fiscale anticiclica capace di impattare sui livelli di occupazione. I 20.000 miliardi di dollari immessi nei mercati hanno surriscaldato le borse e creato uno stato di tensione che appare molto simile a quello dei primi Anni Duemila. Il rammarico è enorme se si pensa a quanti effetti positivi avrebbe potuto creare una frazione di questa somma dirottata per la creazione di infrastrutture e il rilancio produttivo dei Paesi colpiti dalla crisi.