Mario Draghi avvia l’opera di definizione della coalizione con cui spera di avviare il suo esecutivo dopo la nomina da parte del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e intanto si discute su quali saranno le priorità della sua agenda per il rilancio del Paese. Un’agenda che suscita grande aspettative al Quirinale e tra gli osservatori internazionali, ma dovrà necessariamente sovrapporsi con quanto messo in campo dai partiti che potranno o vorranno garantirgli appoggio in Parlamento.
Logico dunque che le priorità più stringenti non potranno non essere le questioni di assoluta emergenza per il Paese e la cui soluzione si auspica come inevitabile per non pregiudicare i grandi assetti strategici che, dal Recovery Plan al rilancio di industria e manifattura, dovranno porre le basi per il consolidamento della ripresa economica nei mesi e negli anni a venire. Nelle prime settimane del governo, è inevitabile il fatto che a tenere banco saranno dunque questioni di assoluta emergenza: il tema del lavoro, in vista dell’imminente fine del blocco dei licenziamenti (il 31 marzo farà presto ad arrivare); la questione, già affrontata da altri Paesi europei, del rischio di un’ondata di fallimenti di imprese sulla scia dell’inizio della restituzione dei prestiti, garantiti e non, emessi in occasione delle prime chiusure legate al Covid-19; il complesso problema del sistema bancario, gravato da problematiche strutturali e di sistema e su cui rischia di abbattersi la scure della nuova normativa europea sugli scoperti che rischia di creare un’ondata di nuovi crediti deteriorati.
Qualsiasi governo tremerebbe di fronte a una massa di problemi così gravosa e nemmeno Draghi potrà evitare di prestare attenzione a tali questioni, che rischiano di creare una vera e propria slavina sull’economia e sul mondo del lavoro nazionale.
Il blocco dei licenziamenti e l’attivazione della cassa integrazione in deroga hanno funto da poderoso ammortizzatore sociale e hanno congelato la crisi di interi comparti aziendali e di imprese spesso già piegate dalle difficoltà degli ultimi anni. Allo stesso modo, le imprese in affanno hanno usufruito del credito garantito dagli aiuti statali, nonostante le difficoltà di attivazione del circuito. Ciononostante, le aziende italiane restano ancora pericolosamente gravate da problematiche di cassa e di struttura: i dati della Banca d’Italia sottolineano che i decreti governativi hanno abbassato da 142mila a 100mila le imprese a corto di liquidità e da 48 a 33 miliardi di euro il fabbisogno di risorse. Un ammontare notevole che rischia di trasformarsi in un fardello gravoso qualora per le aziende finisse il periodo della moratoria contributiva e iniziasse ad essere problematico il mantenimento a pieno regime degli organici.
Parliamo di un problema multidimensionale. In cui rientrano dinamiche economiche e di mercato, questioni di equità sociale (molto spesso le misure di Cig in deroga impongono una riduzione del salario e nessuna copertura previdenziale), fattori connessi all’evoluzione dei rapporti di lavoro. Un complesso sistema in cui molto spesso datori di lavoro e occupati sono parimenti vittime, tant’è che negli scorsi mesi più volte Confindustria e sindacati hanno trovato un comune terreno di dialogo sull’emergenza in corso. La distruzione di posti di lavoro prevedibile con lo sblocco dei licenziamenti potrebbe sommarsi a quella legata ai fallimenti corporate.
Come medierà Draghi con queste faccende? In un documento di dicembre del G30, il think tank di consulenza economica internazionale che Draghi presiede assieme al banchiere indiano Raghuram Rajam, si legge che il consiglio ideale fornito agli esecutivi di tutto il pianeta è di concentrarsi sulla spesa destinata a sostenere le aziende produttive, la riqualificazione dei lavoratori tra un posto di lavoro e l’altro e la programmazione di investimenti strategici, evitando che troppe risorse vadano a coprire imprese “zombie” destinate a fallire al semplice esaurirsi dei sussidi. Nel documento si legge che “i governi dovrebbero incoraggiare aggiustamenti nel mercato del lavoro, […] che richiederanno che alcuni lavoratori dovranno cambiare azienda o settore, con appropriati percorsi di riqualificazione e assistenza economica” la cui ristrutturazione appare, nel nostro Paese connotato da una pubblica amministrazione a corto di organico e da un welfare a macchia di leopardo, una priorità.
Joseph Schumpeter, celebre teorico del capitalismo, parlava della “distruzione creatrice” come della dinamica simbolo del processo di innovazione del parco-imprese di un sistema, ed è quanto inevitabilmente, con la fine dei ristori e dei sussidi, diversi Paesi stanno incentivando. In Italia il governo Draghi dovrà prendere scelte volte a preservare lavoro, occupazione e produzione evitando manovre recessive che accelerino le parti deteriori di questo processo e incentivando le manovre che consentiranno di creare nuove competenze, posti di lavoro più qualificati, maggiore sicurezza sociale.
“La scommessa è duplice: spendere in modo efficace le risorse europee per superare i ‘colli di bottiglia’ segnalati; combinare in modi più efficienti la spesa pubblica per l’emergenza con quella per la ripresa”, ha detto a Formiche l’economista della Luiss Marcello Messori. “Fino a oggi l’emergenza. è stata così pesante da non consentire interventi selettivi”, ha aggiunto, ma ora Draghi potrà scegliere se proseguire sull’utilizzo della spesa in deficit e come indirizzarla per fini strategici (investimenti produttivi di lungo periodo in primis). Sarà Draghi, forse, a realizzare quei piani di lungo periodo perorati all’inizio della legislatura dal suo antico rivale Paolo Savona, alle cui posizioni in materia la pandemia lo ha fortemente avvicinato? Se ci sarà lungimiranza strategica, sì: ma lo scoglio del combinato disposto lavoro-imprese “zombie” va doppiato senza danni per il sistema Paese, complice il fatto che una tempesta potrebbe portare a turbamenti ulteriori anche nel campo delle banche.
Le banche italiane, come ha ricordato l’onorevole Carlo Fidanza, rischiano di finire nella bufera dell’impennata dei crediti deteriorati sulla scia delle nuove normative sugli scoperti introdotte dalle autorità europee. Il governo giallorosso è inoltre affondato senza risolvere una volta per tutte la grana del Monte dei Paschi di Siena, fardello pesantissimo sul sistema-Paese. Un piano nazionale di governo dei rischi bancari sarà un’ulteriore necessità per Draghi che, complice i suoi trascorsi e i legami esistenti in Bce, non potrà non metterlo ai primi punti della sua agenda. “Gli Npl e, in particolare, la componente degli Unlikely to Pay (inadempienza probabile, ndr) rappresentano una spada di Damocle per i futuri bilanci bancari”, sottolinea Messori, aprendo dunque alla possibilità che venga istituita una bad bank capace di gestire e rivalutare ordinatamente i crediti deteriorati delle banche italiane. Una bad bank, supponiamo, che potrebbe avere anche un indiretto scrutinio pubblico o un coordinamento centrale, funzionale ad ammortizzare le attività in sofferenza consolidate nei bilanci bancari prima che, dalla primavera, la nuova normativa Ue crei ulteriore caos.
La strada per Draghi sarà irta e complicata. L‘ex governatore Bce ha più volte espresso la sua visione di politica economica negli ultimi mesi, ma dovrà costruire una compagine all’altezza per mediare con le conseguenze politiche e sociali di delicate scelte economiche. Mai quanto ora si dimostrerà la non neutralità della “tecnica”: le prime scelte di Draghi daranno un segnale dell’impronta politica dell’esecutivo per i mesi a venire.