Dallo scoppio della pandemia da Covid-19 le tensioni tra Cina e Australia sono andate progressivamente esacerbandosi, soprattutto in seguito all’appoggio di Canberra all’idea di un indagine internazionale sull’origine del coronavirus (senza previa consultazione diplomatica), a cui Pechino ha risposto con una serie di contromisure progressive e blocchi commerciali su alcuni prodotti di esportazione australiana come vino, orzo, cotone, rame, carbone, zucchero e aragoste.
La vendetta di Pechino
I blocchi sono stati inizialmente informali, più simili ad un boicottaggio a cui invitare commercianti e produttori. Poi, nel maggio dello scorso anno, si è passati ad una aggressiva politica doganale, imponendo dazi sull’orzo australiano a seguito di un’indagine antidumping, tanto da rendere l’orzo australiano non più competitivo sul mercato cinese, per poi passare al blocco della carne bovina e dei relativi macelli. Last, but not least, nel marzo di quest’anno, la Cina ha formalizzato dazi temporanei (con tariffe fino al 218% per cinque anni) sul vino australiano che, secondo le autorità cinesi, stava danneggiando l’industria vinicola nazionale. Nel complesso, gli investimenti cinesi in Australia sono diminuiti del 62% nel 2020, scendendo a soli 775 milioni di dollari. A poco sono valsi i ricorsi del governo australiano alla World Trade Organization, le cui regole sarebbero state violate più volte dalla Cina, tanto da indurre Canberra a chiedere alla stessa organizzazione l’istituzione di un comitato per la risoluzione della controversia.
La ritorsione di Canberra
Per tutta risposta, Canberra ha optato per la soluzione paventata da tempo, silurando il progetto della Belt and Road, cuore della strategia commerciale cinese. Il ministro degli Esteri Marise Payne ha usato i suoi poteri per ribaltare l’accordo del 2018 tra lo stato di Victoria, il secondo stato più grande e più ricco del Paese guidato da Daniel Andrews, e Pechino, sostenendo che esso è “incompatibile con la politica estera australiana e contrario alle nostre relazioni estere”. Gli accordi sono stati annullati nell’ambito del Foreign Arrangements Scheme del governo federale, entrato in vigore nel dicembre 2020. Lo schema conferisce al Commonwealth il potere di porre il veto agli accordi tra territori ed entità straniere che non sono coerenti con la politica estera australiana.
Nel dettaglio, il governo australiano ha annullato un memorandum d’intesa sulla Belt and Road siglato nell’ottobre 2018 con il Victoria, l’unico governo in Australia ad aprire alla Nuova Via della Seta. Mentre altri Paesi che hanno aderito alla BRI hanno ricevuto finanziamenti e infrastrutture su larga scala da Pechino, l’accordo tra Cina e Victoria sembrava essere mirato maggiormente a incoraggiare investimenti e scambi futuri. In totale, sono stati annullati quattro accordi, due con la Cina e uno ciascuno con Iran e Siria, tutti firmati dal governo vittoriano perché “contrari alle nostre relazioni estere”, ha dichiarato Payne.
Cosa conteneva l’accordo?
La demolizione dell’accordo è avvenuta prima ancora che le intese fossero completamente formalizzate, e prima che offrissero vantaggi reali per entrambe le parti. Il memorandum del 2018 era poco dettagliato, ma prometteva cooperazione commerciale, finanziaria e politica. Il quadro venne definito ulteriormente nell’ottobre 2019, con un gruppo di lavoro presieduto da Daniel Andrews e dal vicepresidente della Commissione nazionale per lo Sviluppo e la Riforma della Cina, Ning Jizhe.
Le infrastrutture erano una parte fondamentale dell’accordo, che prometteva di aumentare la partecipazione delle società cinesi al programma di costruzione di infrastrutture del Victoria, incoraggiandole a stabilire una presenza nello stato australiano e a lanciare offerte per grandi progetti. La mossa sollecitò altre potenziali aree di cooperazione come le biotecnologie e l’agricoltura. Corollari dell’intesa principale avrebbero riguardato anche gli stimoli al commercio e l’accesso al mercato, soprattutto per i prodotti agricoli, alimentari, nutraceutici e cosmetici. Il memorandum prevedeva anche la cooperazione sulla connettività delle strutture, sul commercio senza barriere e sulla finanza, e un potenziamento della “Via della seta digitale” attraverso ricerca congiunta, programmi pilota, condivisione delle conoscenze e rafforzamento delle capacità comuni.
Victoria e Cina avrebbero dovuto ancora concordare una road map che avrebbe ulteriormente riempito di significato e obiettivi l’accordo, la cui firma era prevista entro marzo 2020, quando poi la pandemia ha congelato una serie di iniziative bilaterali. Il memorandum suscitò numerose polemiche perché mantenuto segreto e diffuso solo alcune settimane dopo la stipula, scatenando l’ira del primo ministro Scott Morrison e dell’ex premier John Howard. In quell’occasione, Andrews si affrettò a sottolineare che nessun impegno sarebbe stato vincolante e che sarebbero stati tutelati prima gli interessi federali.
Le tensioni tra il Victoria e Canberra
La vicenda, pur costituendo l’epilogo delle tensioni commerciali tra i due Paesi, si inquadra anche in un più generale garbuglio di rapporti tesi tra lo stato di Victoria e il governo centrale australiano. Il premier victoriano Andrews aveva difeso strenuamente il progetto, ritenendolo fondamentale per i lavoratori e la prosperità dello stato, nonostante le grandi pressioni per annullare l’accordo legate alle crescenti tensioni con la Cina nel corso del 2020. Quello della prosperità e dei posti di lavoro è un refrain noto nella retorica di Andrews che, tuttavia, ha sempre rifiutato di esprimersi sulle implicazioni etiche, geopolitiche ed economiche legate alla cooperazione con la Cina, non ultima la “trappola del debito”: questo aspetto, in particolare, ha causato non poca acredine con il governo centrale tutto teso alla ricerca di nuovi mercati.
L’intervento del potere federale, infatti, appare anche come il culmine di un periodo di gelo tra i due livelli del potere: il governatore ha più volte agitato lo spauracchio di una grave crisi che potrebbe abbattersi su agricoltori, lavoratori e imprese. Indirettamente, questa mossa potrebbe trasformarsi in un vantaggio per Andrews e l’ALP (il partito laburista australiano): se la Cina dovesse vendicarsi con ulteriori ritorsioni commerciali, danneggiando le imprese australiane e victoriane, il governo statale sarà pronto a scaricare la colpa sulle spalle di Canberra. Nella visione di Andrews, infatti, è l’Australia ad aver compromesso i rapporti con la Cina che resta, malgrado tutto, il più grande cliente del Paese.