Il recente accordo sui tagli alla produzione di petrolio negoziato dai Paesi Opec, dalla Russia e dagli Stati Uniti e vegliato dalle due superpotenze e dall’Arabia Sauditaha posto fine alla guerra dei prezzi che per oltre un mese ha destabilizzato i mercati energetici globali e sommandosi alla crisi del coronavirus ha contribuito a trascinare a terra l’economia globale.

L’asse Mosca-Washington-Riad ha prodotto un accordo storico: mai si era riusciti a concordare tra tante potenze così diverse un piano comune di riduzione di un’offerta di greggio divenuta eccessiva senza farlo ritenere da nessuno una sconfitta. Riad può vantare di aver riaffermato la sua centralità sull’Opec, evitato il naufragio del suo sistema estrattivo, rilanciato la sua capacità di decisore di ultima istanza del prezzo del greggio; Mosca ha testato la resistenza del suo sistema a un crollo dei prezzi, riaffermandolo come il più funzionale a shock imprevedibili; Washington,infine, ha evitato lo schianto del settore dello shale oil, una partecipazione ai tagli pari a quella russo-saudita e i rischi di un eccessivo crollo dei prezzi.

Donald Trump ha dovuto investire notevole capitale politico nell’accordo. Sulle prime, il presidente sembrava interessato a accettare l’offerta di tagli unilaterali da parte dei sauditi, ma dopo l’invito di Vladimir Putin all’inquilino della Casa Bianca e al principe Mohammad bin Salman a una trattativa concreta si è impegnato perché essa andasse in porto. Da ultimo, ha offerto un taglio di 250mila barili in più per consentire al presidente messicano Lopez Obrador di decurtare i suoi tagli da 400 a 100mila barili al giorno.

Fatto l’accordo bisogna però pensare alla sua concreta applicazione. In primo luogo, alcuni produttori ritenuti in condizione delicata, come Iran, Libia e Venezuela, sono stati esentati dall’accordo ratificato dal G20 dei ministri energetici; inoltre eccezioni come quella del Messico rendono possibile, in futuro assistere ad altre richieste di sdoganamento tra i piccoli e medi produttori (dall’Ecuador all’Angola); in terzo luogo, Trump potrebbe essere tentato dal tirare la corda per permettere ai prezzi di risalire, ipotesi confermata da un Tweet del Presidente in cui si fissa in 20 milioni di barili al giorno la soglia ideale a cui Washington punta.

Infine, vi è la natura della sorveglianza sul rispetto delle regole. “È prevista anche una riduzione extra di 2 milioni di barili al giorno da parte di Riad, Emirati arabi e Kuwait, che avevano aumentato troppo la produzione nei giorni scorsi”, sottolinea Il Sole 24 Ore. In ogni caso i condensati (simili al petrolio, ma più leggeri) vengono esclusi per chiunque dal calcolo, come Mosca aveva ottenuto fin dallo scorso dicembre, il che rende ancora più difficile controllare che tutti rispettino gli impegni”.

Il complesso di queste problematiche ha reso i mercati cauti nelle negoziazioni sul greggio: si aspettano notizie relative a fatti concreti riguardanti l’accordo per riprendere il gioco finanziario di scambio sull’oro nero. Per Stephen Innes di AxiCorp, ripreso da StartMag, i tagli concordati a Riad sono infatti “meno di quanto sperasse” un mercato duramente colpito dall’emergenza Covid-19. Di qui la convinzione di Innes che “la tempesta per i prezzi del petrolio sarà completamente dissipata solo quando saranno finiti i lockdown” nelle economie avanzate. Incertezza geopolitica, crisi globale e ricchezza delle scorte esistenti contribuiscono a indebolire la domanda in maniera maggiore di quanto qualsiasi adeguamento al ribasso dell’offerta possa riuscire a controbilanciare. Bank of America prevede una riduzione media della domanda di petrolio di 9,2 milioni di barili al giorno nel 2020, in contrapposizione al calo di 4,4 milioni di barili al giorno inizialmente messo in conto. Nelle negoziazioni del 14 aprile Brent e Wti hanno ristagnato attorno a 31 e 21 dollari al barile rispettivamente: l’accordo è stato solo un inizio. Sarà l’economia mondiale a dare le vere risposte sul prezzo del greggio.