Nubi nere si vanno affollando sull’Europa mentre il primo autunno caldo dell’economia di guerra procede passo dopo passo verso l’inverno e il combinato disposto di misure emergenziali messe in campo per scongiurare la recessione rischia di procrastinare ma non esorcizzare il rischio-recessione.
L’indice manifatturiero cala in tutta Europa
L’ultimo, tutt’altro che simbolico, avvertimento in tal senso è dato dalle rilevazioni sull’indice Pmi manifatturiero di Standard&Poor’s che misura la fiducia e la resistenza di un sistema economico ai venti recessivi in campo industriale. A ottobre ha segnato un crollo in tutta Europa rispetto ai dati di settembre. L’Indice Pmi del settore manifatturiero tedesco ad ottobre è stato di 45,1 punti contro i 47,8 di settembre. In Francia il valore è di 47,2 punti in calo rispetto al 47,7 di settembre e al livello più basso degli ultimi due anni e mezzo. In Italia è passato da 47,9 a 46,4 punti: non dimentichiamo che secondo le rilevazioni S&P un indice Pmi sotto quota 50 indica un’economia in trend recessivo, dato che nel calcolo rientrano i dati congiunturali a medio termine sugli ordinativi dell’industria.
In altre parole, le industrie riducono le prospettive sugli ordinativi per i mesi a venire. L’indice è un’anticipazione di un trend di calo della produzione materiale per i mesi successivi. E una regressione graduale e prolungata appare come il riflusso del mare dal bagnasciuga che precede uno tsunami. “Ad ottobre, i nuovi ordini sono diminuiti ad un tasso che raramente abbiamo osservato nel corso dei 25 anni di raccolta dati”, ha dichiarato ad Avvenire Joe Hayes, Senior Economist presso S&P Global Market Intelligence, per il quale “contrazioni maggiori sono state riportate solo durante i mesi peggiori della pandemia e all’apice della crisi finanziaria globale tra il 2008 e il 2009” e non sono state registrate nemmeno durante le prime fasi dei lockdown a inizio 2020.
L’Europa nella “policrisi”
L’Europa vive una crisi a più dimensioni. Andrebbe riscoperto il termine “policrisi” che è stato invocato da Jean-Claude Juncker per descrivere la pericolosa situazione dell’Europa nel periodo successivo al 2014. Nell’aprile 2022 il Cascade Institute ha pubblicato un’approfondita analisi sul tema di Scott Janzwood e Thomas Homer-Dixon che ha definito con precisione cosa sia una “policrisi” ed è stata ripresa da Adam Tooze nella sua newsletter Chartbook: “Definiamo una policrisi”, hanno scritto i due studiosi, “come qualsiasi combinazione di tre o più rischi sistemici interagenti con il potenziale di causare un fallimento a cascata e galoppante dei sistemi naturali e sociali che ne degrada irreversibilmente e catastroficamente le prospettive”. Ciò che l’Europa si trova a vivere a fine 2022, con vista 2023, è una situazione di questo tipo.
I dati dell’indice Pmi sono il dito. La luna è la natura dell’Europa come vittima della guerra per procura tra Russia e blocco atlantico, che sta svolgendo il ruolo di acceleratore paragonabile a quello del Covid-19 nel far convergere più crisi. Prima fra tutte: l’inevitabile partita energetica. A cui si aggiunge la seconda crisi sistemica, quella dell’inflazione. Terza sfida è la perdita di leadership europea nella sfida monetaria globale e la fragilità finanziaria dell’Eurosistema. Vi è poi l’annoso tema del rischio di una desertificazione industriale graduale. Il quinto punto è legato al rischio di perdita di ogni discrezionalità politico-diplomatica da parte del Vecchio Continente. Cinque fattori destinati a convergere nel 2023 proprio perché le soluzioni prese finora sono state tamponi. Vediamone gli effetti.
Energia: il 2023 sarà una traversata nel deserto
Concluso il 2022 con l’accelerazione della corsa alla sostituzione del gas russo e messo in cantiere il piano del tetto al prezzo del petrolio di Mosca in sede G7 i Paesi europei hanno ampiamente riempito gli stoccaggi cercando oro blu ovunque: Azerbaijan, Algeria, Congo, Angola, Kazakistan, a cui si aggiungono gli strategici carichi di gas naturale liquefatto di Nigeria, Usa e Qatar. Ma in larga misura si può notare come questa indipendenza dal gas russo apra scenari complicati sul piano strategico.
Primo punto: sono stati rottamati contratti molto spesso a lungo termine che avevano, in certi casi, l’effetto di accrescere la dipendenza europea da Mosca dando però più potere ai mercati spot, che si muovono sul filo delle negoziazioni quotidiane tra gli operatori di mercato. Questo va in contraddizione con l’obiettivo europeo di superare la dipendenza da mercati a forte volatilità come il Ttf di Amsterdam.
Seconda questione: di fronte a molti Paesi fornitori l’acquisizione di gas è parsa come una soluzione tutt’altro che strutturale. Molti Paesi potrebbero legittimamente leggere in pari la domanda europea di fonti di gas alternative a quello russo con gli obiettivi di decarbonizzazione accelerata non trovando necessaria una replica nel 2023 nelle forniture all’Europa di fronte alla prospettiva che la transizione alle rinnovabili esaurisca presto gli sbocchi nel Vecchio Continente.
Ultimo punto e vero elefante nella stanza: l’investimento di centinaia di miliardi di euro in sussidi per ridurre i costi dell’energia e delle bollette, spesso emessi in deficit, da parte dei Paesi europei non sarà semplicemente replicabile nei prossimi mesi. E questo lascia dei forti punti interrogativi sulla tenuta del sistema qualora la crisi di prezzo dovrebbe replicarsi.
La confusione della Bce nella lotta all’inflazione
L’inflazione e la risposta umorale e non strategica della Banca centrale europea sono secondo e terzo punto della questione. Nella risposta europea all’aumento del costo della vita si è prospettata fin dall’inizio l’ombra dell’eccessiva ideologizzazione. Con la scusa di seguire la Federal Reserve americana nella lotta a un’inflazione che negli Usa era data da eccesso di domanda ed era dunque di natura diversa Christine Lagarde ha proceduto a promuovere un aumento repentino dei tassi, la fine accelerata del sostegno all’economia, il ritorno di una retorica rigorista che rischia di trasmettersi alla politica fiscale.
Unitamente a ciò, non si è compreso che è la stessa situazione di economia di guerra a contribuire a creare inflazione e si è passato da Francoforte a Jackson Hole il timone della politica monetaria mondiale che Mario Draghi ai tempi dell’Eurotower aveva, con tutti i limiti del quantitative easing, garantito alla Bce.
L’Europa si trova dunque intenta a “mimare” la Fed nella lotta all’inflazione, finendo per importare i differenziali di competitività tra un’economia Usa indipendente sul piano energetico e sugli approvvigionamenti di cibo e molte materie prime critiche in un sistema energicamente non autosufficiente e a rischio di desertificazione industriale.
La desertificazione industriale che l’austerità può accelerare
Una trasmissione delle logiche rigoriste dalla politica monetaria a quella fiscale appare dietro l’angolo. E può pregiudicare gli investimenti strategici che non possono essere più ridotti al Next Generation Eu nella risposta a una crisi sistemica di cui l’Europa può essere la grande perdente.
Immaginiamo uno scenario in cui, tra un anno, le nazioni europee si troveranno ad affrontare le sessioni di bilancio con la spada di Damocle del ritorno del Patto di Stabilità, in un contesto di crisi delle forniture, alta inflazione e accelerazione dei costi delle materie prime dati da piani di transizione ideologici come quello della transizione all’elettrico nel settore auto da completare entro il 2035: una prospettiva da incubo. Che solo con ambiziosi progetti europei per rilanciare il nesso tra politica industriale, sovranità tecnologica in settori critici (infrastrutture, energia, digitale e via dicendo) e risposta anticiclica alla recessione può essere prevenuta.
L’assenza della politica: alla radice della policrisi
Ora più che mai il quinto e ultimo fattore si rivela quello decisivo: la carenza di una visione politica, sistemica e strategica, capace di immaginare un futuro diverso per l’Europa emerge drammaticamente quando si valutano misure sistemiche fuori tempo massimo (come il tetto al gas) o si discute di decimali, di censura di bilancio, di piccolezze mentre i grandi meccanismi della Storia sono in movimento.
L’Europa deve riappropriarsi delle categorie del politico e farlo partendo dalla madre di tutte le problematiche, la guerra in Ucraina. Una cui fine è più nel suo interesse che in quello di Paesi come la stessa Russia o gli Usa. Urge prendere in mano le redini della questione e promuovere la difesa dell’Ucraina nel quadro di precisi obiettivi politici e diplomatici e immaginare lo scenario più interessante, quello di un “Congresso di Vienna” del XXI secolo per disegnare l’ordine del futuro assieme ai due belligeranti. La guerra è il prisma attraverso cui la crisi sistemica del Vecchio Continente prende la forma di un’ancora più complessa policrisi in cui ogni problematica amplifica sé stessa e quella adiacenti. E la via per uscirne è il rifiuto di ogni ignavia e una vera e propria corsa alla sovranità e all’autonomia europea. L’alternativa sarà quella di subire in prima battuta una recessione sistemica, la quarta in quindici anni (dopo 2007-2008, 2010-2012 e 2020) e soprattutto la retrocessione definitiva nell’ambito delle aree del mondo in de-sviluppo politico, economico, diplomatico. La vera pietra tombale su qualsiasi ambizione per il futuro.