La fine della prima fase acuta della pandemia di coronavirus nei Paesi occidentali a più alto reddito ha lasciato dietro di sè una serie di interrogativi di carattere politico, economico e sociale circa il futuro delle società e dei sistemi produttivi segnati duramente dagli effetti del Sars-Cov-2, “virus acceleratore” di dinamiche estremamente complesse: alla forte accelerazione data al versante tecnologico del sistema capitalistico, ai ragionamenti sul futuro ordinamento del lavoro legato alla diffusione dello smart working e ai nuovi scenari aperti dalla redistribuzione di posti di lavoro e spazi residenziali nei grandi centri urbani andrà aggiunto un discorso trasversale a tutti gli altri e dalla prospettiva ancora più ampia, ovvero quello sulla distribuzione futura del reddito e della ricchezza. Problematica ancora più impellente dopo l’inizio di un secondo round massiccio di contagi in diversi Paesi.

Lungi dal rivelarsi pari a uno dei grandi momenti di livellamento delle disuguaglianze, quali le due guerre mondiali nel XX secolo, la crisi del coronavirus ha prodotto nuove forme di disuguaglianza e ha accelerato le dinamiche in quelle già esistenti.

Il primo ordine di disuguaglianze è quello sotto gli occhi di tutti: semplificando, la crisi nei Paesi sviluppati ha reso ancor più ricchi i ricchissimi e ancor più poveri gli ultimi. Piccole Note ha recentemente commentato il rapporto Billionaires Insights 2020 pubblicato di recente dalla Pwc e da Ubs in cui si legge emblematicamente che durante la pandemia lo scollegamento tra economia reale e finanza e il rally delle borse (dopato dalla corsa dei giganti del digitale, da scommesse rialziste e dall’illusoria speranza di un pronto rimbalzo delle economie più avanzate) ha alimentato i conti corrente dei “Paperoni” del pianeta: nel pieno della pandemia più rovinosa dell’ultimo secolo, con oltre un milione di vittime in otto mesi e spaventose conseguenze sociali, economiche e politiche, i miliardari del pianeta hanno toccato, a fine luglio 2020 un patrimonio complessivo di 10,2 trilioni di dollari, 1,3 trilioni oltre il precedente record del 2017. Nel report, si legge, non traspare “nessun palpito per la scandalosa forbice economica che la pandemia ha accentuato, nessun correttivo suggerito, anzi. Nessuno scandalo che i soldi che avrebbero potuto essere investiti per alleviare le sofferenze dei molti siano finiti nel portafoglio dei pochi, che possono godere delle elusioni fiscali dei paradisi appositi, negati ai più, e che possono investire in filantropia esentasse”.

Questa disuguaglianza è la più evidente, la somma di tutte le altre. Si percepisce sempre di più la disuguaglianza tra chi ha accesso ai diversi livelli delle catene del valore economico e ai conseguenti dividendi sociali. La stessa questione dello smart working ne è un forte esempio, in quanto potenzialmente sfruttabile nella sua completezza solo da una ristretta fascia di aziende del ramo industriale, finanziario e consulenziale capace di creare le giuste economie di scala e gli adeguati sistemi gestionali. Mentre per chi rimane escluso da questa possibilità aumentano sia la possibilità di esposizione al contagio sia il rischio di perdere il lavoro. Come ricorda Il Foglio, questo è emerso in tutta la sua drammaticità negli Stati Uniti già a marzo: “se dividiamo la popolazione americana in quattro gruppi ordinati per reddito percepito, nel più povero solo 9 persone su 100 potevano permettersi di lavorare da casa. Salendo invece di reddito, si arriva a 1 su 5 nel secondo gruppo, 1 su 3 nel terzo mentre solo nel 25 per cento più ricco della popolazione si supera la metà (61,5 per cento)”.

Abbiamo poi il tema della povertà e dell’esclusione sociale. In diversi Paesi il sostegno economico offerto alle categorie più svantaggiate dalla crisi si è rivelato inadeguato a garantire la quota di reddito in grado di certificare la percezione di sicurezza sociale. Vale, per fare l’esempio italiano, per centinaia di migliaia di piccoli imprenditori e lavoratori cassintegrati, vale per i disoccupati. Due facce della stessa medaglia: i beneficiari del nuovo welfare e gli utenti del welfare tradizionale, entrambi in condizioni di precarietà. E per molte persone solo un’istituzione sussidiaria può fornire un adeguato ristoro. Secondo quanto dichiarato dalla Caritas nel suo Rapporto Povertà, su 450mila persone assistite nel periodo maggio-settembre 2020, confrontato con gli stessi mesi del 2019, l’incidenza dei “nuovi poveri” per effetto dell’emergenza Covid è salita dal 31% al 45%: “quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta”. A questo si associa, collegata, l’emergenza della povertà educativa, dato che anche nel sistema scolastico i giovani rischiano di dividersi tra gli studenti degli istituti in grado di garantire didattica e assistenza in forme più continuative anche in caso di erogazione a distanza e frequentatori di scuole “privilegiate”.

Di queste disuguaglianze l’Italia deve e dovrà tenere sempre più conto. “L’Italia, quarta nazione più popolosa dell’Ue, è quella che ha la più vasta popolazione di poveri assoluti ed è uno dei pochissimi Paesi dove la situazione è peggiorata”, faceva notare con allarme alcuni mesi prima dello scoppio della pandemia Avvenire. I poveri assoluti italiani erano 5,1 milioni nel 2018 e poco più di 4,5 milioni nel 2019, più del doppio di dodici anni prima: per il 2020, anche leggendo i dati Caritas, c’è da aspettarsi un probabile boom, a cui va aggiungendosi l’ampia zona grigia di popolazione terrorizzata dall’idea che un nuovo lockdown porti con sè un nuovo tracollo occupazionale e economico.

L’inverno sta, non solo metaforicamente, arrivando, e porterà con sè la fine del blocco dei licenziamenti, il ritorno di numerose scadenze fiscali, il momento più critico per famiglie e imprese, una manovra già superata dalla realtà, lo stallo sui fondi europei. Casi come quelli delle proteste di Napoli mostrano che nel Paese c’è una crescente ebollizione sociale su cui ha posto l’accento anche Mario Caligiuri, presidente della Società Italiana di Intelligence, secondo cui i “segnali sono noti da tempo” e ciononostante continuamente sottovalutati” e per il quale i movimenti di scontento manifestati dai cittadini sul web sono un utile proxy dell’ebollizione sociale connessa alla stanchezza per le misure restrittive e l’incertezza economica.

Insomma, il Paese, come il resto dell’Europa e dell’Occidente, è destinato a conoscere una lunga fase di tensioni e problematiche crescenti: politica e mondo economico dovranno ben tenere presente l’obiettivo della pace sociale, e non solo il recupero del Pil, progettando nuovi strumenti di investimento, nuove misure di assistenza e nuove politiche per lavoro e sviluppo nei mesi e negli anni a venire. Dal rilancio del lavoro e dell’economia reale potrà nascere la risposta a una rottura cruciale che sembra per ora aver avvantaggiato solo i grandi centri d’accumulazione della finanza e le compagnie del settore tecnologico, lasciando in tutto il mondo milioni di lavoratori e persone comuni estremamente spaesati.