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L’ex ministro degli Esteri di Berlino divenuto coscienza critica della Germania, il verde Joschka Fischer, ha pubblicato nel 2014 un durissimo j’accuse contro le politiche compiute dalla Germania di Angela Merkel nel contesto europeo degli ultimi anni.

Nel pieno della crisi del coronavirus, rileggere le parole di Fischer in “Scheitert Europa?” (“L’Europa fallisce?“) è indicativo per capire l’ampio livello di sfasamento tra l’atteggiamento di Berlino nel contesto di una posizione dominante nell’Eurozona e la completa mancanza di memoria per i favori ricevuti in passato per favorirne ripresa e sviluppo sotto il profilo economico.

Fischer, più recentemente tornato a farsi sentire sui rischi di un eccessivo surplus nella bilancia commerciale, scriveva parole ancora oggi attuali nel pieno della crisi dei debiti europea, quando si manifestò con grande virulenza la rigidità della Merkel e del suo ministro delle Finanze Wolfgang Schauble in relazione all’applicazione dell’austerità come principio guida della politica fiscale europea. L’austerità intesa come rimedio economico, cura risultata peggiore del male, ma anche, con un palese connotato morale di stampo protestante, come rimedio al vizio capitale delle cicale del resto d’Europa, greci, italiani e spagnoli in testa, alle nostre “colpe”. In quei tempi anche nella nostra stampa andava di moda la celebre e pedante corrispondenza terminologica tra l’espressione tedesca che significa “colpa” (schuld) e quella che significa “debiti” (schulden).

Allora come oggi l’ipocrisia è stata la cifra determinante della condotta di Berlino. Nel corso della crisi la Germania imponeva il rispetto alle regole di bilancio dell’Unione europea mentre violava sistematicamente quelle sul surplus di bilancio. Oggi vara un mega-pacchetto di stimolo all’economia mentre in Europa si ancora alla difesa della linea del rigore. In entrambi i casi il governo Merkel ha dimenticato che fu proprio da un “giubileo del debito” nei suoi confronti che la Germania ha potuto costruire le basi della sua ascesa.

Fischer nel suo saggio definisce “sorprendente” il fatto che la Germania abbia scordato la storica Conferenza di Londra del 1953, quando l’Europa cancellò all’allora Germania Ovest i debiti di guerra ereditati dal periodo nazista. “Senza quel regalo – scrive l’ex ministro tedesco nel suo libro – non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati. La Germania non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico”. Ventuno Paesi (Belgio, Canada, Ceylon, Danimarca, Grecia, Iran, Irlanda, Italia, Liechtenstein, Lussemburgo, Norvegia, Pakistan, Regno Unito, Francia Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Unione Sudafricana e Jugoslavia) optarono per congelare il debito di guerra di 30 miliardi di marchi accumulato dalla Germania, dimezzarlo fino alla riunificazione e spalmarlo su un lasso temporale di trent’anni.

L’obiettivo era evitare un nuovo default tedesco come quello seguito alla Grande Guerra. Il governo tedesco, allora stanziato a Bonn, negoziò con sagacia e posò sul ritorno nella comunità internazionale seguito all’accordo di Londra il suo reinserimento nell’economia mondiale. “L’altro 50% avrebbe dovuto essere rimborsato dopo l’eventuale riunificazione delle due Germanie. Ma nel 1990 l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose alla rinegoziazione”, come riporta Il Sole 24 Ore, a causa degli oneri imposti dalla riunificazione.

In quel senso la Germania aveva davvero avuto amnistiato il debito e la colpa di aver scatenato la guerra. La lezione che Berlino dovrebbe cogliere è connessa ai rischi di utilizzare i debiti come arma impropria in tempo di crisi economica: il rischio concreto che l’Europa vada a schiantarsi a causa dell’irrigidimento di Berlino, abile a evitare che il moralismo imposto all’esterno abbia applicazioni interne in fase di crisi, porta le parole di Fischer a diventare, ora più che mai, emblematiche. Un monito per chi ha le orecchie per intendere le lezioni della storia.