121 miliardi di euro di debito pubblico in più, 78 miliardi di extra-deficit, uno stock complessivo oltre quota 2,6 trilioni: i dati macroeconomici dell’Italia rilevati dalla Banca d’Italia per il disastroso e complesso 2020, se letti in forma a sé stante, a una prima lettura apparirebbero agghiaccianti. Abituati come siamo a una narrazione mediatica e politica che vede nel debito pubblico non un generico problema ma il Problema per antonomasia della nostra economia, le conseguenze economiche del Covid-19 e della crisi industriale e commerciale ci potrebbero apparire ben evidenti da questa crescita.
Parafrasando Giulio Andreotti, però, potremmo dire che la situazione é in fin dei conti un po’ più complessa. E anzi, addirittura a pensare che sul deficit pubblico italiano per l’anno 2020 i problemi siano stati ben altri: forse nei momenti critici il Tesoro di Roberto Gualtieri non lo ha incentivato a dovere con nuove emissioni di Btp estremamente richieste dai mercati, sicuramente il governo Conte II a più riprese non ha saputo come sfruttarlo adeguatamente per finanziare progetti per la ripresa del Paese da coniugare con i miliardi di Next Generation Eu. Ma il debito pubblico non rappresenta un problema in sé e per sé fino a che sussisteranno le dinamiche di politica monetaria a livello europeo che fanno da sponda ai Btp: il sostegno Bce, il varo del Pepp (Pandemic Emergence Purchase Plan), la strutturale tenuta dell’Italia, ora più che mai troppo grande per fallire.
Non a caso, a un investitore nell’anno passato sarebbe convenuto puntare sugli strumenti di debito italiano. “Le obbligazioni italiane”, scrive Bloomberg, “hanno reso l’8%” nel 2020, il massimo in Europa e “più del doppio di quello della Germania. I rendimenti del debito decennale italiano hanno dunque raggiunto il minimo storico dello 0,507% prima di Natale, rispetto a un massimo del 2,99% a marzo, quando l’inizio della pandemia di coronavirus ha agitato i mercati globali”.
Ben diverso è il discorso di altre categorie di debito che potrebbero mettere a repentaglio il sistema economico italiano ed internazionale. Moody’s ha recentemente sottolineato, confermando previsioni che già ci eravamo sentiti di fare a inizio anno, che il 2021 sarà un anno diviso tra le prospettive di una ripresa economica e sociale dai danni del 2020 e l’incertezza legata alla continuità con lo scorso anno in diversi campi, dalla presenza di politiche di restrizione all’attività sociale ed economica alla notevole distanza, nonostante i vaccini, da una anche minima forma di immunità di gregge dal Covid-19. In questo contesto, è possibile che diverse politiche di sostegno all’economia promosse durante il 2020 vadano a scadenza senza che l’Italia sia riuscita a garantire una reale e definitiva risoluzione dell’emergenza sanitaria.
In primavera avranno fine il blocco dei licenziamenti, l’onda lunga delle garanzie sui prestiti, molto probabilmente anche i ristori. E lo Stato dovrà affrontare una tempesta estremamente problematica, l’equivalente economico-finanziario del triage bellico: di fronte al rischio di fallimenti corporate a cascata, la stabilità del debito privato sarà messa a repentaglio. Una questione valida in tutta Europa, specie nei Paesi con livelli di debito privato in rapporto al Pil più alti rispetto all’Italia, ma che Roma non può escludere di doversi trovare ad affrontare in tempi brevi, come ricorda Il Sole 24 Ore: “Rimuovere troppo presto gli aiuti potrebbe avere l’effetto collaterale di provocare un aumento dei crediti deteriorati nei bilanci bancari. Nonché problemi per gli stessi governi a cui gli istituti potrebbero escutere le garanzie pubbliche che i governi hanno stanziato in abbondanza durante la crisi sanitaria”.
Aggiungiamo a questo gruzzolo le nuove normative Ue sugli scoperti bancari, che renderanno più pressante la spinta degli istituti a esigere i crediti per non averli come zavorra sotto forma di Npl, gli effetti dell’errato sfruttamento da parte degli attori economici di anni di politiche monetarie espansive finite a alimentare l’accumulazione di debito privato e pericolose speculazioni borsistiche e la spada di Damocle della bolla finanziaria in dilatazione negli Usa e lo scenario è ben delineato. Scompare, di fronte a questo quadro, la priorità del presunto Problema dei problemi, il debito pubblico così avversato da una certa retorica economica che non guarda il mondo nel suo complesso.
Lo stesso Mario Draghi, nel famoso intervento della scorsa primavera sul Financial Times (tanto applaudito dai commentatori di tutta Europa quanto poche volte letto con attenzione) aveva di fatto ricordato come nel contesto di politiche interventiste a favore dell’economia reale i deficit nazionali fossero più sostenibili e auspicabili di elevati livelli di indebitamento privato e anzi incentivato i governi a intervenire massicciamente per evitare l’esplosione e il decollo del secondo oltre i livelli di guardia. Perché governi e Stati nell’era della pandemia possono contare su politiche monetarie favorevoli, su sostegni di lungo periodo e sulla possibilità di convivere sull’incertezza sapendo che il loro debito sarà in fin dei conti rinnovato, rinegoziato ma mai dovrà essere concretamente ripagato.
I privati hanno scadenze più certe, così come gli enti locali (di cui si teme in Italia un’ondata di default), e dunque é innegabile che in questa fase complessa sia ai governi che si deve affidare il ruolo trainante nel rilancio delle economie. Stati come la Germania lo hanno capito, in Italia troppe volte tra politiche autoreferenziali, bonus inefficaci e scarsa propensione agli investimenti strategici la coalizione giallorossa ha ignorato questa realtà fattiva. Con conseguenze che l’intero Paese rischia di pagare sul lungo periodo.