Ultimamente la Germania sembra riservare notizie sempre più deludenti sul fronte economico, e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Economia Peter Altmaier non fanno eccezione. Confermando le indiscrezioni trapelate negli ultimi giorni, l’esecutivo ha annunciato che nel 2019 il Prodotto interno lordo della prima economia europea dovrebbe segnare un rialzo dello 0,5%. Al contempo, sono state ridimensionate le stime della crescita per l’anno venturo: nel 2020 si prevede un’espansione dell’1% dell’economia, con uno 0,5% secco in meno rispetto alle aspettative.

Previsioni anticipate da dati analoghi diffusi da un gruppo di think tank tedeschi (il Diw di Berlino, l’Ifo di Monaco, l’Ifw di Kiel, l’Iwh di Lipsia e il Rwi di Essen) che il 2 ottobre scorso ha pubblicato uno dei due rapporti sullo stato dell’economia tedesca diffusi ogni anno. Evidenziando un’Outlook in controtendenza con le aspettative, che parlavano di +0,8% nel 2019, al netto della recessione, e di +1,8% l’anno prossimo. Gli economisti hanno lanciato un messaggio al governo dichiarando di ritenere “dannoso” impuntarsi sul mito del pareggio di bilancio.

Tutto si può dire fuorché che si parlasse di risultati inaspettati. Dopo che ad agosto l’industria aveva segnato il più grave ribasso su base mensile e annua dalla Grande Recessione, dopo l’annuncio dei dati sulla crescita del Pil che indicavano l’ingresso della Germania in recessione e il calo della fiducia degli investitori, anche la Bundesbank aveva lanciato l’allarme, indicando nella palese impreparazione di Berlino a gestire le tensioni commerciali e a garantire la sostenibilità del suo modello mercantilista le ragioni della crisi tedesca. Ultimi, ma non per importanza, gli imprenditori riuniti nella Confindustria tedesca (Bdi), primi patroni a inizio millennio del pacchetto flessibilità del lavoro-austerità fiscale-mercantilismo avevano chiesto esplicitamente più deficit e il ripudio del pareggio di bilancio.

Nulla di tutto questo ha smosso l’esecutivo di Angela Merkel dal suo torpore. Oramai la Germania sembra concentrarsi sulla conservazione dell’esistente, su uno status quo di cui cominciano a essere stufi i cittadini e i lavoratori tedeschi. Dilaga oramai il fenomeno della cassa integrazione, il crollo dell’industria automobilistica è una spada di Damocle su cui rischia di innestarsi a cascata una slavina del settore manifatturiero e del settore dei servizi. Dà un’idea dell’immenso potenziale produttivo tedesco il fatto che nonostante tutte queste criticità il Paese riesca a mantenersi in un sentiero di crescita, seppur molto ridotta, e viene da pensare a cosa potrebbe esser fatto da Berlino rinunciando ai dogmatismi sul deficit e comprendendo la virtù di una spesa in infrastrutture fisiche, digitali, energetiche finanziata in deficit per rilanciare un’occupazione interna o di politiche volte a sostenere la domanda nazionale di beni e servizi dopo le emorragie dell’export. Ma nulla di tutto ciò è immaginabile oggigiorno: la Germania soffre di una sindrome di autismo economico che le impedisce di valutare soluzioni divergenti.

Per quanto a lungo potrà durare tutto ciò? Finché le difficoltà saranno solo congiunturali, un cambio di passo è difficile da auspicare. Ma l’economia reale e l’industria non sono le sole a parlare. La Germania ha anche diversi problemi di natura finanziaria, come dimostrato dall’imposizione di tassi negativi sui risparmi da parte di diversi istituti e dal perdurare del problema di Deutsche Bank. Ma se Berlino pensa di aspettare una crisi sistemica per cambiare passo, non ha colto l’importanza di prevenire, piuttosto che curare.

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