La Spoon River dell’Italia bancaria, negli ultimi anni, ha visto l’iscrizione all’elenco degli istituti smantellati o ridimensionati da crisi sistemiche di numerose banche di antica tradizione e importanti per i territori di riferimento. Pensiamo a Banca Etruria , Carichieti, Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca, travolte dai crediti deteriorati e dalla crisi sistemica delle loro attività operative e incorporate in gruppi più grandi come Ubi e Intesa San Paolo. O alle più strutturate Carige e Popolare di Bari, terremotate tra il 2018 e il 2019 da un’instabilità finanziaria che le ha portate sull’orlo del fallimento. Tutti questi dossier, però, impallidiscono di fronte al caso di Monte dei Paschi di Siena. La banca più antica del mondo, a lungo tra le maggiori in Italia per capitalizzazione e attività, è in crisi esistenziale da quasi cinque anni ed è ora controllata dal Ministero del Tesoro che, nelle intenzioni originarie, avrebbe dovuto risanarne i bilanci e le attività per riportarla sul mercato.

Alla prova della verità, però, ogni manovra di questo tipo è risultata fallimentare: anche Unicredit, dopo aver scelto come presidente Pier Carlo Padoan, che da ministro dell’Economia del governo Renzi mediò l’intervento pubblico in Mps, proprio per progettare la scalata a Rocca Salimbeni ha cambiato strategia nominado alla sua guida come ad Andrea Orcel, specialista in merger&acquisitions estremamente contrario all’opzione dell’ingresso di Piazza Gae Aulenti nella banca senese.

Il motivo è semplice: nell’ultimo quinquennio il dissesto del Monte non è stato frenato, ma è accelerato. La Consob guidata dall’ex ministro Paolo Savona ha recentemente messo sotto torchio le autorità del Monte (e di converso il Tesoro) e l’ad Guido Bastianini per non aver divulgato al mercato il nuovo piano industriale approvato il 17 dicembre scorso. Un piano che investitori e stakeholder faticano a ritenere credibile dopo che, nei quattro casi precedenti, nessun obiettivo riguardante entrate, redditività e riduzione delle passività è stato rispettato.

Dopo l’ingresso del Tesoro in Mps la strategia 2017-2021, tarata su una banca che pur in crisi nel 2016 aveva avuto un giro d’affari di 4 miliardi di euro, prevedeva utili per 1,2 miliardi di euro, con conseguente innalzamento del tasso di ritorno in termini di utili del capitale proprio della banca (il cosiddetto Roe, Return on equity) del 10%, quando per fare un paragone quello di Intesa è inferiore al 7,5%. Ebbene, come nota Affari Italiani, questi obiettivi sono stati totalmente mancati, dato che stando all’ultimo bilancio consultabile, datato settembre 2020, “i ricavi sono fermi a 2,2 miliardi, in calo di oltre il 9% sui nove mesi del 2019. In fortissima contrazione la voce principale della gestione caratteristica. Il margine d’interesse è caduto in un solo anno del 16%. Nessuna banca ha registrato, pur in era Covid, una caduta dei ricavi così pronunciata”. Il rosso da 20 miliardi accumulato dal 2009 in avanti è destinato ad aumentare con una passività ulteriore di 1,5 miliardi nell’anno passato.

Nel 2020, facendo la proiezione con i tre mesi mancanti al bilancio, si prevede che Mps possa aver concluso attorno ai 2,9 miliardi di euro di fatturato la sua attività. Morale? La banca senese dal 2016 ad ha lasciato sul terreno il 30% dei suoi ricavi, un bagno di sangue a cui si è aggiunta la cura da cavallo dei crediti deteriorati, che rappresentano un pozzo nero sulla cui effettiva profondità è lecito interrogarsi. Nonostante la vendita ad Amco di parte delle sofferenze, la crisi del Covid rischia di generare ulteriori criticità e il rapporto tra crediti deteriorati e totale delle attività circolanti (Npl ratio) “è atteso salire dal 4,2% del 2020 al 6% quest’anno e al 7,3% nel 2023”. Il fabbisogno di capitali di cui Mps necessita per tenere duro in questo complesso 2021 è stimato essere pari, secondo Il Sole 24 Ore a 2-2,5 miliardi di euro, provenienti o da una ricapitalizzazione da parte del Tesoro o dalla ricerca di un socio esterno.

Tutte queste stime non tengono in conto, inoltre, il fatto che la nuova, severa normativa europea sugli scoperti bancari rischia di creare uno tsunami sulle banche già gravate da sofferenze e crisi sistemiche e di far impennare ulteriormente il rischio di un azzeramento delle prospettive di ripresa del Monte, ora più che mai fardello che grava sullo Stato e la sua politica economica. Si potrebbe discutere  a lungo sulle cause di lungo periodo che hanno portato all’innesco della bomba Mps: a inizio Anni Duemila, la scriteriata operazione Antonveneta, nel 2012-2013 la crisi giudiziaria e, pochi anni dopo, la tempesta Npl hanno contributio a rendere instabile una banca a sua volta messa in difficoltà da un’attività operativa incoerente a seconda delle varie gestioni, che ha avuto nel problematico tentativo di conquistare fette di mercato al Sud Italia, con risultati in chiaroscuro, uno sbocco insufficiente a rilanciare l’istituto senese. La cui instabilità è da tempo conclamata e rischia, nei mesi a venire, di crescere ulteriormente: il nuovo governo dovrà mediare con il futuro Mps nel più breve tempo possibile.

E la proposta di rinviare di un paio d’anni, concordando il tutto con la Commissione europea, la vendita di Mps in attesa del passaggio della buriana del Covid, avanzata di recente dal vicepresidente del Copasir Adolfo Urso, appare una delle poche pienamente sensate in vista del duro anno che attende le banche italiane. Per le quali accollarsi il decotto Monte dei Paschi potrebbe risultare fisiologicamente impossibile oggigiorno.

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