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La Germania è in un vicolo cieco. La prima economia d’Europa vive la sua crisi più grave degli ultimi sette anni e prosegue nel periodo buio caratterizzato dalla crisi finanziaria (Deutsche Bank docet), dalla contrazione industriale e dal calo del Pil  che secondo tutti i think tank economici e la Bundesbank prefigura l’inizio di una fase di recessione.

Secondo le stime degli economisti del centro studi Ifw, il Pil crescerà 0,4% nel 2019, ma l’economia tedesca entrerà, tuttavia, in una recessione tecnica, con una contrazione dello 0,1% nel secondo trimestre e dello 0,3% nel terzo. Il tasso di disoccupazione, dicono le stime, passerà dall’attuale 5% al 5,2% nel 2020 e al 5,3% nel 2021, anno in cui per la prima volta da inizio millennio il numero di occupati scenderà sotto quota 45 milioni.

A rendere ancora più fosche le previsioni è intervenuto un recente rapporto di Ihs Markit che prefigura un calo del 2% dell’output industriale manifatturiero tedesco sia nel 2019 che nel 2020 e grandi problematiche per l’economia mercantilista ed esportatrice tedesca, con l’incapacità di gestire una politica autonoma a livello europeo su crescita, commercio e investimenti pubblici che la rende vittima delle tensioni dell’economia globale. La crisi dell’automotive, le tensioni commerciali globali e il rischio Brexit rafforzano la minaccia recessiva per la Germania.

Come sottolinea Bloomberg, questo rappresenterebbe l’occasione propizia per la Germania per superare le strettoie dell’austerità, sfruttare le potenzialità della spesa in deficit e portare avanti un serio piano di stimoli e investimenti. Tuttavia, nonostante le tentazioni legate al difficile momento politico, anche Angela Merkel è restia a abbandonare un sentiero politico per cui non sembrano esistere alternative. Anche di fronte all’annuncio del piano ambientale da 54 miliardi di euro la Merkel ha negato che esso possa essere portato avanti tramite spesa in deficit. Del resto Timo Wollmershäuser, responsabile della ricerca e delle previsioni economiche dell’Ifo, l’istituto di ricerche economiche più prestigioso della Germania, ha dichiarato con chiarezza a Valori.it di non aspettarsi “ulteriori investimenti”: ” In questa fase sarebbe molto più sensato ridurre la tassazione sulle imprese. Non solo l’imposta sulle società, ma anche quella sul reddito, visto che in Germania, come in Italia, moltissime imprese sono società di persone. C’è urgentemente bisogno di una riforma fiscale complessiva”.

Secondo il ricercatore, infatti, la crescita della spesa reale dello Stato tedesco in investimenti, pur senza un piano strategico di sostegno, sarebbe una prova dell’utilità della politica dei surplus di bilancio. Tesi opinabile se si considera che l’attività politico-economica dell’attuale governo è sempre stata tesa all’incremento delle esportazioni e non al decisivo rafforzamento della domanda interna e del benessere dei cittadini. Wollmershäuser ha, invece, ragione nell’indicare nella scarsa progettualità del settore industriale automobilistico di fronte alle innovazioni del settore una fonte di crisi per l’economia nazionale.

La crisi tedesca potrebbe ora prorogarsi al resto d’Europa. Le dinamiche industriali del Vecchio continente e la dipendenza del valore dell’euro dall’export germanico rendono un effetto domino difficile da evitare. Su questo dovrebbe riflettere in particolar modo l’Italia, le cui regioni settentrionali sono integrate nella catena del valore tedesca, ponendo in essere investimenti produttivi e strumenti di politica industriale anti-recessione prima che sia troppo tardi. Magari sviluppando politiche di incentivi fiscali e sostegni all’innovazione capaci di facilitare il cammino a quelle imprese che, come afferma lo storico dell’economia e esperto di politiche industriali Giuseppe Berta, hanno più margine di crescita e possono competere nel mercato globale in maniera autonoma. Imprese come Brembo, Mapei o le società del comparto chimico-farmaceutico. Che con il loro dinamismo potrebbero, tra le altre cose, aiutare l’Italia a svincolare l’industria italiana dal ruolo di subfornitrice di quella tedesca e a rubare quote di mercato alla Germania in Europa senza subire in toto gli effetti della sua crisi.

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