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La brusca frenata economica della Germania non ha portato solo a una crisi industriale oramai conclamata e all’ingresso del Paese in una fase recessiva, ma ha colpito anche le prospettive di decine di migliaia di lavoratori, che ora sono minacciati dallo spettro di un ingresso graduale nella cassa integrazione. L’inizio della crisi nel settore auto ha impattato sull’intera filiera manifatturiera della Germania.

“Inutile chiudere gli occhi, la congiuntura è difficile”, ha detto Elmar Degenhart, ad di Continental, al quotidiano francese Le Monde. “Non ci dirigiamo più verso la crisi. Ci siamo dentro in pieno”, sentenzia il manager a capo della grande industria produttrice di pneumatici che ha già proceduto a ridurre l’orario di lavoro a circa un migliaio di dipendenti.

Come sottolinea Italia Oggi, “la riduzione dell’orario di lavoro è regolamentata in maniera rigida. Una società che si trova improvvisamente a dover fronteggiare un calo di ordini può presentare una domanda di integrazione salariale per i propri lavoratori per una durata massima di 12 mesi. In questo periodo l’agenzia federale per l’impiego prende in carico fino al 67% del taglio del salario subita dai lavoratori in attività ridotta”. Secondo un recente sondaggio condotto dall’Istituto Ifo, uno dei principali think tank tedeschi per la ricerca economica, con sede a Monaco, circa l’8,5% delle aziende del settore manifatturiero tedesco prevede di introdurre programmi di lavoro a breve termine conformi a questa normativa nei prossimi tre mesi.

Nel 2019 il calo della produzione automobilistica sfiora l’11%. E per capire cosa ciò rappresenti per la Germania, bastano pochi numeri: l’auto occupa oltre 850mila persone nel Paese, genera un indotto occupazionale doppio, rappresenta il 16% delle esportazioni e il 20% del valore delle produzioni industriali. L’impatto sul Pil del solo settore automobilistico propriamente definito è pari al 12%. La stagnazione del mercato interno dovuta alle storture del modello iperexport della Germania, i dazi statunitensi sui prodotti europei e la grande spada di Damocle della Brexit contribuiscono a mandare in panico i decisori politici di Berlino.

Angela Merkel è in fase declinante sotto il profilo politico ma è ora più che mai indispensabile per la sua Unione Cristiano-Democratica (Cdu) dato il brusco ridimensionamento dei tassi di consenso della sua erede designata, nonché ministro della Difesa, Annegret Kramp-Karrenbauer. La carenza di leadership politica e la dipendenza della politica tedesca dal percorso tracciato, che predica il sostegno incondizionato alle regole di mercato, alle logiche dell’austerità interna e a un diritto del lavoro fortemente penalizzante per le ultime ruote della “locomotiva” sempre più ingolfata di Berlino.

A suo modo la struttura economica fondata su graduali riduzioni dell’orario e su un diritto del lavoro incentrato sui minijob (le famose riforme Hartz, definite la “povertà per legge”) mascherano una manifestazione delle difficoltà economiche della Germania sotto forma di aumento del tasso di disoccupazione, rimasto pressoché stabile attorno al 5%. Quel che appare più palese è il fatto che sull’altare del potenziale esportatore Berlino ha sacrificato la stabilità economica di centinaia di migliaia di famiglie, cittadini e lavoratori, impegnati in un settore industriale in cui è facile, per le grandi aziende, far pagare in termini di riduzioni d’orario e stipendio ai dipendenti il calo dei proventi da esportazione. Senza tenere in considerazione che così facendo si impoverisce ulteriormente un mercato interno già rigido e si rende ancora più difficile per i cittadini della Germania comprare prodotti tedeschi. Il circolo vizioso della crisi industriale tedesca appare senza via d’uscita finché a dominare sarà questo tipo di mentalità.

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