I rigoristi europei sono in crisi. Una crisi legata in primo luogo ai propri autogol, a dei danni autoinferti, alla pervicace volontà di difendere a oltranza una linea franata da tempo. Con la tenacia dei militari giapponesi che a decenni dalla fine della Seconda guerra mondiale furono trovati ancora in assetto da guerra nelle giungle del Pacifico molti falchi del rigore puntano a difendere l’indifendibile. Dopo due recessioni, la crisi dei debiti, la supplenza imperfetta ma vitale del Quantitative easing, il rischio di un collasso dell’Eurozona legato all’applicazione ostinata dell’austerità, la svolta guidata dalla Germania di Angela Merkel sulla scia della pandemia di Covid-19 e l’apertura del dibattito sulla riforma dei Trattati, nonostante tutto, in Europa c’è chi si prepara al ritorno al business as usual, e lo difende a oltranza.

I custodi dell’austerità a oltranza sono gli ultimi giapponesi d’Europa. Nonostante i dogmi economici scolpiti nelle “tavole della legge” dei Trattati europei si siano dimostrati vani di fronte alla crisi e solo il loro abbandono ha permesso una risposta ordinata, nonostante la svolta epocale dell’interventismo Bce i rigoristi si impuntano sulla validità universale dei loro precetti. Disposti a riprendere a tutto campo la guerra al debito pubblico, agli sforamenti, alla spesa sociale dopo la fine della pandemia. Arrivati al credo quia absurdum: come se il fatto che la realtà dell’economia abbia smentito i concetti dell’austerità espansiva e della validità universale della disciplina di bilancio a tutti i costi non avesse fatto altro che rafforzare la veridicità di questi concetti.

La battaglia sul futuro dell’Europa continua e i falchi sono in ritirata. Sebastian Kurz e Jens Weidmann, ex primo ministro austriaco e governatore uscente della Bundesbank, hanno annunciato le loro dimissioni, privando il partito dei rigoristi di due autorevoli referenti. Mark Rutte fatica in Olanda, mentre nel Nord Europa Svezia, Danimarca e Finlandia sono meno radicali rispetto al passato nel costituire un sostegno decisivo per chi vuole riportare indietro le lancette della storia europea. Il fronte è meno coeso rispetto al passato, e qualche campanello deve essere suonato dalle parti del vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis. L’ex premier lettone e supercommissario all’Economia, tra i maggiori difensori del rigore, ha in una recente intervista al Corriere della Sera difeso il Patto di Stabilità dalle volontà di riforma di diversi Paesi, Italia in testa.

Per Dombrovskis le ricette da applicare sono quelle del passato: “è essenziale ridurre l’alto debito pubblico perché questo determina come potremo rispondere a futuri choc”, per quanto l’intervento Bce abbia di fatto monetizzato e sterilizzato buona parte dei deficit, in una vera e propria svolta giapponese. Inoltre per Dombrovskis “il Patto di stabilità, in base alla nostra valutazione, ha funzionato bene, ha abbastanza flessibilità come la crisi ha dimostrato: siamo stati capaci di attivare la clausola di salvaguardia e di fornire uno stimolo fiscale molto considerevole all’economia”. Un ampio giro di parole per non dover ammettere che il “funzionamento” del Patto di Stabilità è stato di fatto legato al via libera dato dalla sua sospensione.

Le parole di Dombrovskis sono, come al solito, radicali e pungenti. L’ex primo ministro lettone non è nuovo a uscite di questo tipo, a difese a oltranza delle regole sul debito e il deficit e a un intrinseco positivismo sulla loro tenuta. Un semplice riferimento al caso italiano lo dimostra. Non si può non dimenticare la sua condotta radicalmente pro austerità e interventista contro il governo italiano ai tempi dello scontro tra Commissione Juncker e governo Conte I nel 2018, o gli affondi contro i giallorossi nel 2019 e nel 2020, compresi in tutti i casi attacchi alle politiche macroeconomiche dell’Italia condotti spesso in fasi di crisi a mercati aperti. Poco prima della pandemia, Dombrovskis del resto si espresse sull’Italia con parole che riecheggiano le frasi che si sentono ancora oggi: “Dobbiamo vigilare sui possibili rischi alla stabilità economica e finanziaria e preservare finanze pubbliche sostenibili. Una politica di bilancio responsabile in questa fase significa anche migliorare le finanze pubbliche e usare lo spazio di bilancio per sostenere investimenti e riforme”. La rinuncia del governo Conte II a negoziare un “superdeficit” in manovra e la fine delle illusioni di maggiori dividendi per l’afflato europeista del decaduto governo giallorosso sono state dovute in larga parte all’inflessibilità del politico lettone.

Il fatto che una pandemia e un anno e mezzo di smentite della logica rigorista non abbiano spostato di una virgola la convinzione di Dombrovskis sulla tenuta dogmi che dieci anni di alterne fortune dell’economia europea avevano già messo in discussione è decisamente spiazzante, così come lo sono il tenace sostegno di Austria e Olanda a ogni mantenimento dello status quo sui trattati per il periodo post-pandemia e la difficoltà che hanno molti Paesi, per quanto meno coesi rispetto al passato, a tenere presente la necessità di un cambio di passo ora più che mai inevitabile.

Le dinamiche strutturali dell’economia europea vedono i dogmi dei falchi sfatati sul campo. Ma come il calabrone dell’antico proverbio, le regole del rigore continuano a volare, restano cioè sul tavolo come ipotesi per il futuro, pur senza sapere come, essendo state più volte smentite sul campo, mentre i loro portavoce pontificano convinti. E la motivazione è da ricercarsi in una serie di fattori. In primo luogo l’eredità di una narrazione politica e mediatica di matrice neoliberista e austeritaria che porta a focalizzarsi unicamente su debito e spesa pubblica come parametri chiave. In secondo per la sovrarappresentazione dei falchi come Dombrovskis in ruoli decisionali chiave della Commissione. In terzo luogo per i meccanismi decisionali comunitari che premiano i guardiani dello status quo con procedure di voto per cui sono spesso richieste o votazioni unanime o maggioranze articolate. Infine, per l’ancora troppo timida risposta politica di quei Paesi che si oppongono al fronte del rigore.

E per il 2022 saranno proprio Stati come Italia e Francia, in sinergia con la Germania se saprà definitivamente compiere la coraggiosa scelta di rottamare l’austerità fiscale, a incentivare un dibattito in tal senso.  Lo chiedono dinamiche come il consolidamento dell’asse anti-rigorista del Sud formato da Spagna e Portogallo. Lo impone un sano realismo sul futuro del Vecchio Continente. Lo dovrebbero, paradosso tra i paradossi, sostenere per primi i tifosi del mercantilismo commerciale che è il complemento del dogma rigorista, dato che solo un’Europa capace di investire e crescere potrà ricostruire appieno i suoi mercati. La resistenza degli “ultimi giapponesi” del rigore è un freno allo sviluppo politico del Vecchio Continente e la vera minaccia per il post-pandemia. Ma la notizia è che i falchi hanno perso l’inerzia. E l’insistenza di falchi come Dombrovskis su degli slogan vuoti e smentiti sul campo ripetuti per atto di fede, in un certo senso, lo testimonia. Una finestra di opportunità tanto ghiotta per la rottamazione delle regole più estreme sull’austerità e il rigore contabile come quella che potrebbe aprirsi nelle prossime settimane potrebbe essere unica nel suo genere per le colombe d’Europa.

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