La Commissione Europea viene nuovamente sconfitta sul fronte giudiziario nel contesto della battaglia legale apertasi sul “caso Tercas”, la cui lettura è fondamentale per capire come si è evoluta negli ultimi anni la crisi delle banche italiane. Nel 2019 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea aveva stabilito che l’intervento del Fondo interbancario di tutela depositi (Fitd) sul caso della cassa di risparmio di Teramo trovatasi in crisi di liquidità, andato in scena nel 2015, non è da considerare come aiuto di Stato, essendo il Fitd un’associazione di garanzia comune degli istituti bancari a cui gli aderenti si uniscono su base volontaria. La Commissione Juncker, però, ai tempi censurò la manovra italiana, impedendo che il Fitd potesse venire sdoganato nelle successive, e ben più gravi, crisi sistemiche che hanno travolto le popolari, le banche venete, gli istituti del Centro Italia e, sulla loro scia, gruppi di peso come Mps, Carige, Popolare di Bari.

Impugnando la sentenza nella primavera 2019, la Commissione uscente voleva certificare la bontà della sua condotta. A due anni di distanza, ecco la doccia gelata. La Corte Ue ha confermato il verdetto del 2019 e rincarato la dose. La Corte ha dichiarato: “La circostanza che l’ente erogatore dell’aiuto abbia natura privata implica che gli indizi atti a dimostrare l’imputabilità della misura allo Stato sono diversi da
quelli richiesti nell’ipotesi in cui l’ente erogatore dell’aiuto sia un’impresa pubblica”. Questo di conseguenza ha fatto sì che sul fronte delle scelte della Commissione si profilasse un vero e proprio “errore di diritto”, uno scivolone che le banche italiane hanno pagato in maniera eccessivamente dura.

Portando sulle sue spalle l’onere della “censura” Ue al suo intervento avvenuto nel 2015 il Fitd non poté giocare un ruolo risolutore nel risolvere la crisi delle quattro banche (Etruria, Chieti, Ferrara e Marche) mandate gambe all’aria con l’applicazione delle norme sul burden sharing, l’azzeramento del valore e la liquidazione degli asset in conformità alla direttiva europea sul bail-in che avrebbe avuto piena e totale applicazione a inizio 2016.

Facendo i conti sul costo delle normative “salva-banche” e sugli effetti a cascata sui risparmiatori legati all’azzeramento del valore di azioni e obbligazioni, al crollo del valore degli asset, all’impennata dei crediti deteriorati e al sostanziale azzeramento dei margini operativi, si capisce la portata dell’errore della Commissione su Tercas, che ha impedito a lungo la possibilità che il fondo di garanzia delle banche italiane intervenisse in maniera mirata per circoscrivere l’infezione legata alla crisi di singoli istituti, prevenendo una slavina sistemica.

Lettera43 nel 2018 sottolineava come il conto complessivo “è stato di 31 miliardi di euro”. Questo, tra 2015 e 2018, “il costo complessivo per il salvataggio di sette banche italiane” (i quattro istituti citati, Mps, Banca di Vicenza e Veneto Banca”, dopo il bagno di sangue legato ai processi di cui abbiamo parlato. E nel 2015 l’annullamento dell’intervento del Fitd a favore di Tercas costrinse il piccolo istituto abruzzese a rimborsare 300 milioni di euro, frenando al contempo l’integrazione con Popolare di Bari che si era voluta accollare l’onere di integrarla nelle sue strutture. In questo contesto, nota StartMag, “passarono mesi preziosi che impedirono alla Bpb una rapida integrazione delle attività di Tercas che, unite ad altre difficoltà e vulnerabilità della banca barese, costituirono l’inizio della fine per l’istituto guidato da Marco Jacobini”, il tutto mentre l’ondata di panico legata alla liquidazione degli istituti dell’Italia centrale, all’applicazione del bail-in e alle incertezze di sistema causavano un ampliamento della crisi nel 2016.

Già nel marzo 2019, prosegue l’analisi di Giuseppe Liturri, “dopo la prima sentenza del Tribunale, una mozione a firma dei senatori Alberto Bagnai e Daniele Pesco impegnava il governo (all’epoca Conte I) a fare la conta dei danni e presentare la fattura a Bruxelles”. E vanno ancora acclarate completamente le responsabilità del governo Renzi, in carica all’epoca dei fatti, e del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, estremamente solerti, anche oltre le richieste dell’Ue, nell’applicazione delle normative sul bail-in e la risoluzione della crisi bancaria con l’azzeramento dei valori degli asset degli istituti e incapaci di contrastare a viso aperto il verdetto sfavorevole sul Fitd.

Il presidente dell’Abi Antonio Patuelli, ha in ogni caso espresso soddisfazione per la sentenza che conferma la bontà dell’intervento del Fitd e, ad anni di distanza, censura l’eccessivo rigore della Commissione sulle nostre banche, chiedendo al contempo al governo Draghi qualcosa di analogo alla mozione Pesco-Bagnai, e cioè di attrezzarsi per capire l’entità dei risarcimenti che l’Italia potrà chiedere per i danni subiti dall’errore della Commissione. Risarcimenti materiali che non potranno, in ogni caso, colmare la perdita di un pezzo importante della storia finanziaria del Paese, risarcire moralmente e umanamente i risparmiatori truffati, le famiglie che hanno perso i risparmi di una vita e i territori feriti dalla distruzione di istituti centrali per il loro sistema produttivo.