Nella straniante polarizzazione del mondo economico statunitense il Nasdaq, l’indice di Wall Street ove sono prezzati i titoli del settore tecnologico, incarna punti di forze e contraddizioni di un sistema messo a dura prova dal coronavirus prima e dalle proteste seguite alla morte di George Floyd poi.
Il Nasdaq si sta avvicinando infatti a un nuovo sorpasso del record di punteggio e capitalizzazione toccata il 19 febbraio scorso, quando con 9817 punti l’indice era arrivato al suo apogeo. Dopo, la borsa statunitense fu travolta dall’effetto-panico scatenato dalla diffusione globale della pandemia e dalle conseguenti incertezze economiche, che neutralizzarono anche il tentativo emergenziale della Federal Reserve di tamponare le falle: il Nasdaq perse in un mese oltre il 30% del suo valore e toccò il minimo il 23 marzo, con 6860 punti. A livello aggregato dall’inizio dell’anno al 22 maggio il Nasdaq ha guadagnato il 7,8%. Un risultato in controtendenza con tutti gli altri principali indici del mondo, che sono in negativo se non in profondo rosso.
La risalita dell’indice è stata legata a una duplice convergenza di fattori. Da un lato ha giocato un ruolo fondamentale il piano di stimoli messo in campo da Donald Trump e dalla sua amministrazione come risposta alla crisi, che nella prima tranche ha fatto affluire 2 trilioni di dollari nell’economia a stelle e strisce, in convergenza con una svolta interventista della Fed, che ha comprato titoli e quote di società capitalizzate a Wall Street. Dall’altro lato, però, è stato fondamentale anche il new normal della fase di lockdown globale, che ha portato a un decollo sensibile dei giganti del digitale divenuti sempre più imprescindibili.
Il coronavirus è un Giano bifronte perchè crea, al tempo stesso, più e meno globalizzazione. Isola i popoli, frena i commerci materiali e impone l’isolamento del lockdown, ma al tempo stesso esalta la centralità e la dipendenza dei sistemi dalle piattaforme tecnologiche che della globalizzazione risultano la manifestazione più profonda nel contesto economico. Logico che questo si rifletta in un decollo degli indici del tech che, al contempo, riflettono società in larga misura meno colpite relativamente dalla piaga dell’economia statunitense, la devastazione del mercato del lavoro che ha portato a oltre 40 milioni di disoccupati. Con 133 miliardi di dollari in asset e oltre 70 in ricavi a fine 2019, ad esempio, Facebook impiegava un numero di dipendenti (44mila) relativamente ridotto se si pensa che un’azienda tradizionale come Pwc, per fare solo un esempio, a fronte di un fatturato di 42 miliardi di dollari detiene un organico di oltre 250mila persone.
Il coronavirus e la fase di lockdown hanno prodotto anche l’ingresso preponderante di nuovi attori di prima fascia nel mercato. Si pensi per esempio a Zoom, la società californiana di servizi di teleconferenze fondata da Eric Yuan, che ha visto le sue azioni decollare dal valore di 68,04 dollari del 31 dicembre scorso agli oltre 220 dollari di inizio giugno e ha iniziato la sua collaborazione con gli apparati di sicurezza assumendo nel suo board il generale H.R. McMaster, già consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Trump.
Mercoledì 3 giugno il Nasdaq ha poi conosciuto l’ingresso in borsa tramite Inital Public Offering (Ipo) più grande del 2020, assistendo allo sbarco di Warner Music, valutata oltre 13 miliardi di dollari. La nota casa discografica ha fissato il prezzo di collocamento a circa 25 dollari per azione, nella parte più alta della banda di oscillazione prevista tra 23 e 26 dollari, fissando la quantità di azioni che offrirà sul mercatoi in 77 milioni. Un segnale di vitalità del Nasdaq che subirà la prima prova del nove nel momento in cui le società analizzeranno le trimestrali relative alla fase più dura del lockdown, ma che non deve ingannare sulla possibilità di una ripresa dell’economia statunitense e globale legata ai giganti del tech. Il Nasdaq segnala la vitalità della parte già di per sè più sana e in forma del sistema statunitense: non è però col decollo degli indici di Google, Facebook e Zoom che si possono tutelare i disoccupati del settore industriale e gli esclusi della società statunitense, fornire risposte alle inquietudini che covano nel cuore profondo della superpotenza. Forse addirittura acuite dalla divaricazione delle prospettive tra i giganti della tecnologia e il resto del Paese. Le cui domande di sicurezza economica e sociale resteranno comunque sul tavolo.