L’agenzia di stampa Reuters nei giorni scorsi ha comunicato la chiusura di un affare da 14 miliardi di dollari, conclusosi a favore di una cordata d’investimento sostenuta dalla Cina, che prevede lo sfruttamento della più grande miniera al mondo di ferro nello Nzerekore. Per anni lo Stato della Guinea ha cercato di sviluppare il giacimento, bloccandosi su questioni legali e non riuscendo a trovare i fondi per costruire la ferrovia necessaria al trasporto del minerale verso l’oceano. L’offerta ha battuto quella da nove miliardi portata avanti dalla società australiana Fortescue, che si sarebbe rifiutata di costruire la strada ferrata per raggiungere il giacimento di Simandou e il porto in prossimità del capolinea, considerando l’opera di esclusiva competenza guineana.

Un metodo già collaudato

La sconfitta della società quotata alla borsa di Sidney evidenzia molto bene la deficienza organizzativa che investe le principali società del mondo occidentale: una scarsa predisposizione agli investimenti strutturali.

In un Paese come la Guinea, dove la maggioranza delle aree è raggiunta nemmeno da un sentiero sterrato, il proporsi per la costruzione dei collegamenti è un surplus in grado di aumentare la qualità dell’investimento e garantire così la chiusura di un acquisto. Una tecnica già usata in passato dai Paesi occidentali, e che ora stanno applicando la Cina in Guinea e l’Arabia Saudita in Kenya.

Perché l’Europa ha smesso di investire in Africa?

Con il processo della decolonizzazione, l’Europa ha limitato ampiamente i propri investimenti esteri, soprattutto nel Continente nero. Sebbene siano rimasti attivi alcuni colonialismi soprattutto di matrice monetaria (come nel caso del Franco Cfa, che proprio la Guinea abbandonò nel 1960), gli investimenti nell’area sono stati limitati, favorendo l’ingresso nel mercato delle grosse cordate arabe, russe e cinesi.

Con la crisi migratoria degli ultimi anni ci si sarebbe dovuti rendere conto del paradosso del continente, dotato delle più grandi ricchezze mondiali benché la popolazione muoia di fame, con picchi di povertà che raggiungono l’80% (come nel caso dello Zimbabwe). Questa semplice considerazione avrebbe dovuto spingere (anche nell’interesse di limitare il flusso di migranti verso l’Europa) i Paesi europei ad aumentare gli investimenti nell’area: sia per ottenere valore di lungo periodo, sia per fermare il processo migratorio e dare possibilità di lavoro. Ma questo non è stato fatto.

Bisogna battere i venti Alisei

Se l’Europa e l’Italia continueranno ad ignorare le grandi possibilità di investimento nel continente nero, la situazione sarà destinata a peggiorare. Il metodo classico di investimento orientale infatti prevede lo sfruttamento intensivo che spesso aggrava le condizioni di vita della popolazione locale. In questo circolo vizioso aumenta la povertà e, di conseguenza, crescono le partenze verso l’Europa. Per difenderci da questa prospettiva l’unica possibilità è quella di sviluppare dei piani coordinati di investimento, eventualmente anche plurinazionali, per poter competere con i grandi colossi mondiali ed impegnarsi nella stabilizzazione economica dei Paesi africani. Una qualsiasi soluzione che escluda anche solo uno di questi particolari è destinata ad essere un mero fallimento e ciò sarà dovuto solamente alle nostre mancanze: con tutta la gioia di Pechino, Mosca e Riad.

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