Negli scorsi giorni abbiamo dato conto della problematica situazione in cui si trova l’acciaieria ex Ilva di Taranto dopo la condanna in primo grado dei fratelli Riva, ex gestori del polo costruito dalla storica Finsider dell’Iri, per disastro ambientale.
Se la sentenza passerà in giudicato o se il Consiglio di Stato decidesse di dare seguito a una sentenza del Tar di Lecce che chiede lo spegnimento dell’acciaieria, oggi in trattativa per essere acquistata dal partenariato pubblico-privato tra Invitalia e ArcelorMittal, il mondo dell’acciaio italiano si troverebbe dimezzato e, al contempo, si metterebbe sotto forte pressione la possibilità di garantire un rifornimento continuo e duraturo di materia prima ai progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza. L’impianto dell’Ilva necessita di un totale risanamento e di una ristrutturazione totale, perdendo 100 milioni di euro al mese ha anche bisogno di una spinta all’innovazione e al rilancio della produttività, ma da esso l’Italia non può prescindere per dare il necessario carburante a un settore che genera un giro d’affari da 60 miliardi di euro l’anno e alla cui produzione di materia prima l’impianto di Taranto garantisce per circa un quinto.
La siderurgia italiana dà lavoro a 33.400 persone, si compone di player sparsi in ogni parte d’Italia, con una forte concentrazione al Nnord Nord (Danieli, Ori-Martin, Arvedi, Feralpi) e sdogana una filiera assai complessa: dalla produzione di acciaio e dalla prima trasformazione si passa allo stoccaggio nei centri servizio, al processo di distribuzione, al commercio di rottame e ferroleghe, al taglio e lavorazione della lamiera, per arrivare agli utilizzatori finali nell’industria manifatturiera fortemente integrata con le reti commerciali a guida, soprattutto, tedesca. L’Ilva tarantina è stata a lungo la struttura produttiva più strategica per garantire una sicurezza produttiva in termini di acciaio al Paese, per alimentare lo sviluppo infrastrutturale, per inserire nelle catene del valore de materiale fondamentale per l’industria il nostro Paese.
Oggi, in vista dello sdoganamento del Pnrr, l’acciaio torna al centro della discussione. “Senza acciaio non c’è industria”, diceva seraficamente il padre della Finsider, Oscar Sinigaglia. Precetto tanto semplice quanto vero, confermato dai dati in aumento della produzione nazionale dopo le ristrettezze dell’anno più duro del Covid-19: negli ultimi dodici mesi la produzione siderurgica italiana è quasi raddoppiata, toccando un aumento percentuale del 78,9%. I volumi sono passati dai 1,149 milioni di tonnellate di aprile 2020 ai 2,056 milioni di tonnellate dello stesso mese 2021.
La sfida del rilancio della politica industriale è fondamentale per il futuro del Paese e il Pnrr impone la necessità di inserire in un quadro di visione complessiva questi risultati incoraggianti. Non si può, in quest’ottica, prescindere da un rilancio del polo tarantino. Che potrebbe essere perno di un sistema di economia circolare e recupero dei rottami, centro sperimentale per avviare una trasformazione “verde” del ciclo integrato, hub alimentato ad idrogeno. Ma non può e non deve chiudere. Pena la retrocessione del Paese e l’ammissione di un gran rifiuto: quello di dare a Taranto un futuro degno e spesso negato dai decisori politici e industriali.
Industria Italiana ritiene che per l’uscita definitiva dalla crisi l’Italia dovrebbe creare una strategia di incentivo all’innovazione in grado di stimolare la produzione di “acciaio intelligente” integrando tecnologie come l’internet delle cose e l’intelligenza artificiale nei processi.: ” A seguito di questa trasformazione, le aziende saranno in grado di esercitare un controllo puntuale ed effettivo su tutte le fasi del processo. In questo modo, saranno capaci di ottimizzare la gestione delle materie prime, di migliorare gli standard qualitativi e l’efficienza degli impianti. Diventeranno più flessibili, e cioè abili nel venire incontro alla diversificazione di prodotto richiesta dal mercato”. Non a caso il progetto del governo Draghi per l’Ilva di Taranto è quello di convertirla in un impianto siderurgico alimentato a idrogeno, quando questo sarà tecnicamente possibile, e di usare i fondi Ue per la transizione energetica per finanziare questa ristrutturazione tecnologica. Lo hanno confermato sia il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani parlando al Fatto Quotidiano sia il collega dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, dialogando coi giornalisti che lo attendevano dopo il suo incontro, avvenuto il 27 maggio scorso a Bruxelles, con il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni.
Il Messaggero ricorda che Taranto si unisce agli impianti di Terni e Piombino su cui lo Stato intende esercitare un controllo, diretto o meno che sia, perché la produzione non cessi e non finisca la possibilità di alimentare con risorse nazionali il Recovery italiano. Uno Stato capace di essere più “stratega” può e deve puntare sull’acciaio come volano di crescita. In Oriente la Cina è uscita da una momentanea crisi dell’acciaio con imponenti piani di infrastrutturazione: aeroporti, ferrovie, autostrade. Parimenti, la Finsider di Taranto alimentò il boom economico italiano degli Anni Sessanta il cui sviluppo fu dovuto anche alla realizzazione di ponti, dighe ed autostrade. Oggi il Recovery Fund può essere l’abilitatore di nuovi processi di questo tipo. Ma la chiusura dell’Ilva va evitata ad ogni costo. Pena la retrocessione industriale del Paese e la riduzione di ogni piano di rinascita industriale del Paese e di futuro per Taranto a meri fuochi fatui.