Siamo abituati a pensare, non del tutto a torto, che il petrolio, e più in generale gli idrocarburi, siano le principali risorse che muovono e regolano l’economia di un Paese sviluppato: la guerra in Ucraina, ed il conseguente aumento dei prezzi dei combustibili fossili a seguito delle sanzioni internazionali elevate alla Russia, sta avendo pesanti effetti sulla vita quotidiana nelle nazioni occidentali.

Se per accaparrarsi le fonti di approvvigionamento di idrocarburi in passato si sono combattute anche guerre guerreggiate, oggi è in atto un altro tipo di guerra, più silenziosa ma altrettanto accanita, per assicurarsi l’accesso a un’altra risorsa mineraria, molto più fondamentale perché rappresenta il futuro dell’economia mondiale: i minerali che contengono Terre Rare e altri elementi come litio, cobalto e metalli del gruppo del platino, o Pgm (Platinum Group Metals).

Sappiamo già che il litio e cobalto sono fondamentali perché necessari per la produzione delle batterie, mentre il palladio, elemento appartenente al gruppo dei Pgm (che sono tra i più rari della Terra), viene usato nell’automotive, in campo elettronico e nella produzione di gioielli. I più grandi giacimenti di litio al momento conosciuti sono situati in Messico, Bolivia, Cile, Afghanistan, Cina, Australia e Stati Uniti facendone così una risorsa importante ma diffusa in Paesi più o meno equamente distribuiti tra le “sfere di influenza” dei più grandi contendenti internazionali sul piano economico, così non è per le Terre Rare (o REE – Rare Earth Elements).

La Cina, infatti, oltre a possedere tra i più importanti giacimenti di minerali ad esse associate – si tratta di elementi chimici della serie dei lantanidi più scandio e ittrio – ne controlla anche al filiera produttiva per circa il 97%. Gli Stati Uniti, che sono anch’essi un Paese produttore di Terre Rare, sono però ben lontani dalla capacità cinese, tanto che devono importarne circa l’80%.

Minerali “critici”

Ma perché i minerali delle REE sono anche più fondamentali del petrolio? Si tratta di elementi chimici usati per la produzione di beni diventati centrali per la vita moderna, in ambito militare, ma soprattutto per quella “green economy” che è stata selezionata per cercare di slegarci dalla dipendenza dagli idrocarburi – diventando così dipendenti da altre e più complesse dinamiche geoeconomiche come vedremo.

Elementi delle Terre Rare sono infatti necessari per produrre magneti permanenti, batterie ricaricabili, catalizzatori per autovetture e intervengono nella filiera produttiva per ottenere energia “pulita” (turbine eoliche), nel campo aerospaziale e della Difesa (radar, sistemi di guida, satellitari e ottici), nella petrolchimica (ad esempio per il cracking del greggio) e più in generale nella produzione di autoveicoli (motori elettrici e ibridi).

Si tratta di risorse altamente critiche, per una serie di considerazioni legate alla natura stessa della distribuzione dei minerali, alle tecniche di estrazione e raffinazione (costosa e inquinante), alla loro scarsissima riciclabilità (tasso inferiore all’1%), al fatto di essere legate a un mercato non regolamentato (come avviene, ad esempio, per oro, rame nichel e altri metalli), ma soprattutto sono risorse estremamente soggette ai “capricci” della geopolitica, in quanto, come detto, la Cina detiene praticamente il monopolio del loro ciclo di estrazione/raffinazione.

Proprio in considerazione del progressivo deterioramento dei rapporti sino-statunitensi, e più in generale sino-occidentali (sebbene l’Europa sia molto più cauta rispetto a Washington nell’avanzare le proprie rimostranze riguardo alla crescente assertività/aggressività cinese) l’approvvigionamento di elementi delle Terre Rare è a rischio, anche al netto della considerazione che, a questo ritmo di sfruttamento, i minerali “tecnologici” non saranno sufficienti a far fronte alla richiesta dell’industria.

Il cambio di passo statunitense sulle Terre Rare

Gli Stati Uniti stanno cercando di correre ai ripari. Già a poche settimane dalla sua elezione, il presidente Joe Biden aveva siglato un ordine esecutivo inerente alla catena di approvvigionamento di “beni essenziali e critici per la sicurezza del Paese” che riguardava, tra medicinali e cibo, i chip dei computer facendo riferimento, più in generale a due settori fondamentali dal punto di vista geopolitico, ovvero quello delle batterie di grande capacità (utilizzate nei veicoli elettrici) e delle Terre Rare, indicate come “minerali critici” essendo “parte essenziale della Difesa, dell’high-tech e di altri prodotti”.

Recentemente, il dipartimento della Difesa Usa ha presentato al Congresso una proposta per autorizzare un finanziamento per il 2023 di più di 235 milioni di dollari per rimpinguare i magazzini nazionali di minerali critici, come titanio, tungsteno e cobalto a dimostrazione della particolare attenzione data da Washington a tutta la filiera di queste particolari risorse minerarie.

La Groenlandia nel mirino

La “guerra” sui minerali tecnologici sta vedendo però un nuovo campo di battaglia: la Groenlandia. Il Paese ha un enorme potenziale di sfruttamento minerario per quanto riguarda alcuni metalli preziosi – come l’oro e il platino – ma soprattutto per quanto riguarda alcune Terre Rare che potrebbero essere estratte per un ammontare annuo di 60mila tonnellate, ovvero pari al 30% del fabbisogno mondiale.

Secondo l’Usgs, il prestigioso servizio geologico nazionale statunitense, la Groenlandia ha infatti la possibilità di surclassare la produzione di Terre Rare cinese in pochi anni. Sempre l’Usgs ci fornisce qualche dato: la Groenlandia potrebbe estrarre circa 500mila tonnellate/anno di due minerali (eudialite e feldspato) da cui si può ricavare, tantalio, zirconio e niobio, la cui quotazione sui mercati supera di gran lunga quella dell’oro.

Oltre a questi sono riconosciuti depositi di minerali di ferro, piombo, zinco, nickel, uranio e con ogni probabilità anche riserve di idrocarburi da ricercarsi in maggior parte nell’offshore groenlandese. Queste ultime due risorse, però, al momento ricadono per la maggior parte in aree del Mare Artico già appartenenti agli Stati che vi si affacciano – quindi Cina esclusa – e pertanto le uniche prospettive cinesi per uno sfruttamento diretto sono quelle di una possibile prospezione inshore data dallo scioglimento della calotta glaciale groenlandese.

Pechino sta già mettendo le mani sulle Terre Rare groenlandesi: la Cina sta investendo attivamente in quote dell’australiana Greenland Minerals Ltd, attiva nella ricerca di questi elementi nel sito di Kvanefjeld, ma non è la sola.

Sempre gli australiani sono molto attivi, con la Tanbreez che è proprietaria del secondo deposito per grandezza della Groenlandia (cerio, lantanio e ittrio) in collaborazione con gli Stati Uniti, e con la Conico Ltd, che a luglio del 2020 era in trattativa per acquistare il 100% della britannica Lingland Resources Ltd attiva nel progetto di prospezione “Ryberg”.

Presenti anche i cechi, con la Czech Geological Research Group che detiene cinque licenze nella zona centro-est e nel sud e i canadesi della Hudson Resources Inc. possessori del 33% della miniera ddi White Mountain (Qaqortorsuaq) e del 100% del progetto di esplorazione di Sarfartoq (neodimio, niobio e tantalio). Capiamo quindi perché Pechino ha deciso di investire in infrastrutture in Groenlandia, e perché l’ex presidente statunitense Donald Trump, nel 2019, propose di “comprare” il Paese dalla Danimarca, generando una mal riposta ilarità.

Gli Stati Uniti sembrano però in vantaggio rispetto al Dragone: oltre ad avere una presenza stabile nel territorio (a Thule c’è una base dell’Usaf mentre a Kangerlussuak ce n’è una della Guardia Nazionale e a Raven Camp si trova una pista d’atterraggio gestita dalla Guardia Nazionale di New York), sempre nel 2019 hanno firmato un memorandum d’intesa con le autorità groenlandesi volto a cominciare una nuova campagna di prospezione geologica, tramite un’indagine congiunta, al fine di aumentare gli investimenti americani nell’esplorazione mineraria.

Inoltre il Nordic Council of Ministers (composto anche dalla Groenlandia) ha evidenziato la minaccia della penetrazione russa, ma soprattutto cinese, sull’Artico occidentale, limitando così il campo d’azione a Pechino. La partita per l’el dorado delle Terre Rare groenlandesi però è ben lungi dall’essere chiusa: la Cina possiede strumenti di penetrazione economica e commerciale ben rodati (la costruzione di infrastrutture ad esempio) che possono avere un peso determinante in considerazione degli aneliti di indipendenza della Groenlandia.