Nell’Eurogruppo di ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha incassato le conseguenze della contraddittoria strategia del governo italiano in Europa nelle ultime settimane: una cocente sconfitta. L’esecutivo di Roma ha, giustamente, rifiutato l’accordo di due settimane fa al Consiglio Europeo ma, nei giorni successivi, si è limitato ad alzare i toni sul tema dell’inconciliabilità tra Meccanismo europeo di stabilità ed emissione di “Eurobond” senza operare alla ricerca di sponde e alleanze in Europa e senza mobilitarsi sul fronte interno per presentare una risposta operativa alla crisi.

Il grande rifiuto al deficit

Il risultato? Sì al Mes e niente Eurobond. Una sconfitta politica che ci dimostra come per gli esecutivi italiani  non ci sono europeismo o euroscetticismo (o presunti tali) che tengano: nell’Unione Europea valgono rapporti di forza che l’Italia, purtroppo, non ha saputo costruire o far valere al contrario di Paesi, come l’Olanda, che giocando sul filo dell’ipocrisia hanno costruito reti, alleanze, strategie. Il governo Conte II, che dell’europeismo lirico ha fatto un suo punto di forza dai primi giorni della sua esistenza, lo ha imparato sulla sua pelle sin della sua nascita: ha dovuto incassare nell’ordine il rifiuto a un superdeficit, il commissariamento di Paolo Gentiloni nella squadra di Ursula von der Leyen, le iniziali sottovalutazioni comunitarie della crisi del coronavirus e ora una rotta che sconfessa la linea portata avanti dal premier Giuseppe Conte nelle ultime giornate.

La sconfitta è politica prima ancora che economica: lo shock sistemico sarà duro per tutta Europa, ma l’Italia ha dato l’impressione di puntare alle misure europee, dalla Bei agli Eurobond, come supplenza di una sana politica economica interna, di risposte attive e operative quali quelle messe in campo da Germania e Francia. Il decreto che dà liquidità alle imprese muove delle semplici garanzie, non investimenti o spese di lunga prospettiva. L’errore per Roma, prima ancora dell’accettazione del Mes, è stata l’incapacità di ammettere e di far capire all’opinione pubblica e agli interlocutori del governo che di esso il Paese non avrebbe mai dovuto avere bisogno se la crisi fosse stata accettata per tempo.

Il nodo del Trattato

Gualtieri, con enfasi, ha comunicato la caduta di ogni condizionalità sul Mes: staremo a vedere, ma in punta di diritto questo significherebbe una radicale modifica all’unanimità dell’Articolo 136 del Trattato sul Funzionamento dell’Ue, in cui si legge che “gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità della zona euro nel suo insieme”. Una clausola che legittima il fondo salva-Stati, formalmente un’istituzione autonoma, e a cui fa seguito la celebre clausola sulle condizionalità: “La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità”. La modifica di questo articolo è rigorosa condizionalità per non considerare il cedimento di Conte e Gualtieri una debacle assoluta e fugare il rischio che un futuro ricorso al Mes apra uno scenario greco per il Paese.

Ora come ora, il Mes è uno strumento con una dotazione insufficiente a risolvere una crisi sistemica e le cui condizioni-capestro mal si conciliano con la necessità di programmare sul lungo periodo. L’insistenza retorica e la focalizzazione del governo sul Mes cancellano la presenza nell’accordo dei nuovi strumenti Bei su cui Roma puntava da tempo: a cadere è l’illusione che la svolta giallorossa avesse restituito autorevolezza negoziale all’Italia in Europa. Schiacciata tra il blocco tedesco-olandese e i giochi di sponda della Francia, Roma non ha preso in mano in maniera energica il blocco mediterraneo venendo sconfitta, come detto, sul terreno politico. Ora l’obiettivo è evitare un’ancora più dolorosa rotta economica.