Dal prestigioso scenario del Forum Ambrosetti di Cernobbio il giornalista Gianni Riotta ha segnalato l’esito di quello che ha definito un “sondaggio elettorale” sulla sfida tra Donald Trump e Joe Biden svolto tra gli esponenti della classe dirigente italiana. Il “sondaggio” di Riotta vede il 68,2% dei presenti preferire Biden, il 31,8% dichiararsi scontento di entrambi i candidati e nessun astante sostenere esplicitamente l’attuale presidente. Il “sondaggio” (che Ambrosetti sul suo sito liquida come semplice televoto) si fonda al tempo stesso su un campione tutt’altro che indicativo: Hillary Clinton (già ospite nel 2019) è indicata tra i keynote speakers, mentre tra i presenti si segnala un feroce avversario di Trump come John Bolton. Al contempo, buona parte degli astanti non politici od istituzionali sono appartenenti al gruppo ristretto dell’alta imprenditoria e della finanza. Categorie che, plasmate sul conformismo ideologico liberale, non hanno in gran simpatia l’inquilino della Casa Bianca.

Trasposta oltre Oceano, è Main Street contro Wall Street, o meglio: imprenditoria contro finanza. Trump ha fatto di tutto per sfondare tra la super-class di cui, tutt’altro che incidentalmente, è egli stesso membro, per accattivarsene le simpatie e conquistare il suo sostegno. Dal taglio alle imposte all’incentivazione della corsa di Wall Street l’amministrazione è stata pro-business su tutto il versante dello spettro politico: ma la diffidenza nei confronti del tycoon newyorkese divenuto Presidente rimane alta. Diversa la percezione nei confronti di Trump nel mondo imprenditoriale: a febbraio, prima della pandemia, i titolari di piccole e medie imprese, secondo dati Cnbc, approvavano a larga maggioranza (64%) l’operato dell’amministrazione. E su questa base di consenso, oltre che su un clima di fiducia nell’economia e nel mercato del lavoro a stelle e strisce che guida l’uscita dalla pandemia, Trump può ancora contare, come anche il New York Times ha dovuto, a denti stretti, ammettere.

Sintetizzando in una battuta, si conferma il trend della sfida Trump-Clinton del 2016: i milionari sono a maggioranza repubblicana, i miliardari votano democratico. Personalità politicamente coraggiose come Bernie Sanders si sono opposti a uno stato di cose sempre più consolidato, ma la realtà è che Biden raccoglie i favori degli executives di Wall Street come l’ex Segretario di Stato fece nel 2016. E negli ultimi anni li ha più volte accarezzati, dato che gli sono state attribuite frasi come “non credo che 500 miliardari siano il motivo per cui abbiamo problemi”. Sempre il New York Times ci ricorda come nel 2020 i finanzieri abbiano donato a Biden 44 milioni di dollari contro i 9 raccolti da Trump: sostenere l’ex vicepresidente è, come nel 2016, un tentativo di imporre la “mossa del cavallo” contro le pulsioni della sinistra dem, favorevole a regolamentare e sovratassare la finanza. La candidata vicepresidente Kamala Harris porta con sè la dote dei sostegni ricevuti dai colossi del digitale e di Hollywood durante la sua breve e fallimentare campagna per la nomination, nel corso della quale 47 miliardari l’hanno attivamente sostenuta. Mentre, nota Forbes, sono già 131 quelli schieratisi per il ticket Biden-Harris.

I miliardari, personalità sempre più in vista nell’universo economico, politico e mediatico, sono giocoforza più esposti al clima culturale e narrativo influenzato dal politicamente corretto, dall’ideologia liberal e dalle loro conseguenze che tra i dipendenti delle loro aziende e il management ad alto reddito hanno una presa crescente. Di conseguenza, un posizionamento a favore di Trump risulta difficilmente giustificabile, mentre al contempo non va sottovalutato il dato sociale: la “super-classe” è rappresentante dell’America delle due coste, lontana dalla parte profonda del Paese su cui Trump fa affidamento.

I titolari di piccole e medie imprese, invece, ragionano in maniera più pragmatica e guardano al sodo: come dimenticare, ad esempio, i maxi-piani da 2 trilioni di dollari messi in campo dalla Casa Bianca contro l’emergenza coronavirus? Il 4 luglio scorso Trump ha confermato l’estensione del programma di aiuti varato lo scorso aprile dalle autorità federali per aiutare le piccole imprese a superare la crisi legata alla pandemia di coronavirus, che nei primi tre mesi di validità ha aiutato quasi cinque milioni di imprenditori a evitare il tracollo, unendosi alle decine di milioni di americani privati del posto di lavoro dalla pandemia. Corsa degli investimenti, fiscalità favorevole, clima pro-business hanno attratto la middle class e il ceto imprenditoriale americano. E la cosa paradossale è che a voltare le spalle a Trump sono proprio coloro che dal suo quadriennio di governo hanno tratto i massimi benefici (pensiamo a un nome su tutti: Jeff Bezos) ma tutt’ora rivendicano, con ipocrisia, una differenza di stile, di cultura e di matrice identitaria rispetto al Presidente. Tra Cernobbio e Wall Street c’è meno distanza che tra quest’ultima e Stati come l’Iowa, l’Ohio, il Montana. I democratici vincono tra le èlite di tutto il mondo, ma dimenticano spesso, come Sanders ha più volte avvertito, il “Paese reale” che alla prova del voto potrebbe voltare loro le spalle. E questo è uno dei motivi per cui il 2020 potrebbe, in fin dei conti, riservare le stesse sorprese del 2016.





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