Altro che fine dell’era del petrolio: la domanda di oro nero, certamente, è destinata a essere rapidamente staccata, a livello globale, da quella di gas naturale ma non a deflettere verso il basso in maniera continua. L’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) stima in aumento da 101 a 120 milioni di dollari al giorno i consumi mondiali di petrolio da qua al 2040: i Paesi produttori e il mercato dovranno convivere ancora a lungo con le dinamiche geoeconomiche e politiche legate alla commercializzazione e distribuzione del petrolio.
Nel finale di 2019 il lato dell’offerta ha registrato una serie di dinamiche convergenti che hanno portato all’aumento dei prezzi: nelle ultime sedute del 26 dicembre il prezzo del petrolio ha toccato i 68 dollari, ai massimi da mesi. Tra i fattori che hanno causato l’incremento, sottolinea Il Sole 24 Ore, “le speranze legate alla fine della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti e i tentativi di matrice Opec di vincolare le forniture. Api (l’American petroleum institute) ha dichiarato che le scorte di greggio negli Stati Uniti sono scese di 7,9 milioni di barili nell’ultima settimana, molto di più di quanto vaticinato dagli analisti”. Dal lato della domanda, pesano l’incremento delle importazioni cinesi e le citate prospettive di lungo periodo sul mercato del greggio.
Tale fattore è importante da sottolineare perchè nei mercati energetici risulta necessaria una virtuosa sincronizzazione tra domanda e offerta: prezzi del petrolio troppo bassi rendono difficile per i produttori raggiungere il break-even, il tentativo dei produttori di inondare il mercato con la concorrenza reciproca crea pressioni ribassistiche ma, al tempo stesso, i cartelli hanno (fortunatamente) ridotto la loro capacità di influenzare in maniera automatica il prezzo del greggio. L’Opec ha dovuto necessariamente venire a patti con la Russia, l’Arabia Saudita si è scoperta vulnerabile dopo l’attacco settembrino alle sue raffinerie, il petrolio non convenzionale Usa è in crisi contingentando la spinta al rialzo dei prezzi in maniera più “virtuosa”.
I due principali indici di quotazione del petrolio, Brent e Wti, si muovono sincronizzati. Il calo delle aspettative di produzione dello shale oil statunitense riduce la corsa verso un aumento incontrollato dei prezzi legato al maggior break-even richiesto dagli operatori del settore per non finire in perdita (vicino agli 80 dollari al barile) e nel gioco borsistico internazionale la “rete” finanziaria del mercato del petrolio si dimostra resiliente. Questo salva in una fase di elevata volatilità dei mercati il petrolio da shock sistemici potenzialmente rovinosi. Lo abbiamo visto a settembre dopo l’attacco alle raffinerie saudite: inizialmente si temeva un boom del prezzo del petrolio oltre i 100 dollari al barile per effetto del colpo da ko assestato al Regno wahabita, tuttavia al momento della riapertura dei mercati si è assistito a un aumento ben più moderato.
Le dinamiche dell’ultimo periodo spostano nuovamente il pallino del gioco nelle mani dei grandi produttori, che dovranno necessariamente trovare forme di concertazione meno oligopolistiche. L’Opec non potrà più fare guerra alla produzione russa, ad esempio, e questo influirà ampiamente sugli scenari geoeconomici. Non è un caso che Mosca intrattenga rapporti con altri grandi produttori: Venezuela, Iran, Arabia Saudita, Iraq. L’Aie ha parlato recentemente di risorse petrolifere accertate superiori ai 1.600 miliardi di barili: questo vuol dire almeno 50 anni di produzione residua anche incorporando l’aumento della domanda e l’evoluzione dei mix energetici. Il petrolio continuerà a condizionare a lungo gli scenari globali.