Mentre, per il momento, la pandemia di coronavirus sembra essersi attestata in Europa su livelli di virulenza inferiori a quelli della scorsa primavera, durante la quale il Covid-19 è imperversato in tutto il Vecchio Continente, gli scenari economici per il prossimo futuro rimangono turbolenti.

Durante la pandemia, lo abbiamo ripetuto più volte, era illusorio il discorso di sacrificare “la vita” per salvare “la borsa”: la fase di corsa del virus, con la serrata totale di una grossa fetta delle attività produttiva, si era infatti strutturata come la prima parte di una crisi economica i cui semi erano in coltura già da tempo e che, come successo in altri scenari, il Covid-19 ha accelerato.

La crisi colpisce l’Europa e l’Italia ne è il ventre molle: perchè Paese già strutturalmente più provato dalle precedenti recessioni, perchè priva di strategie di lungo periodo, perchè fortemente vincolata ai livelli di export della sua industria e della sua manifattura. Alle varie previsioni che segnalano una disoccupazione oltre il 12% e un crollo del Pil in doppia cifra per il 2020 si sono aggiunti recentemente i dati sconfortanti sul commercio.

Su questo fronte ci vorranno almeno tre anni prima che il Paese torni a marciare al passo dello scorso anno, in cui i risultati erano stati positivi nonostante i dilemmi sulla tenuta della produzione industriali posti dal rallentamento dello strategico mercato di sbocco tedesco. Queste le conclusioni del rapporto annuale dell’Ice – Italian Trade Agency, realizzato in collaborazione con Prometeia, Istat, Fondazione Masi, Università Bocconi e Politecnico di Milano. Per l’anno in corso la contrazione attesa è pari al -12%, mentre i rilanci attesi per 2021 e 2022 (+7,4% e +5,2%) sono ritenuti possibili a condizione di una situazione epidemiologica costante e del mantenimento di livelli di ripresa globale graduali e sostenuti.

Il 2019, ricorda Il Messaggero, ha “fatto registrare una crescita del 2,3% dell’export, portando la bilancia commerciale a un saldo positivo di 53 miliardi di euro (stabile al 2,84% la quota di mercato sul commercio mondiale)”. Il 2020 potrebbe lasciare in eredità uno scenario durissimo, a cui si può aggiungere il rischio della destabilizzazione delle catene del valore su scala globale ad opera della pandemia; la manifattura italiana è fortemente integrata in filiere di matrice continentale e in contesti internazionali in cui, rotta una parte della catena, è difficile riannodarne gli estremi. Roma potrebbe assistere alla deviazione di parte della sua produzione industriale in settori strategici (come l’automotive e il meccanico) verso l’Est Europa, ad esempio, se le aziende austriache e tedesche di riferimento decideranno di riorientarsi cercando vantaggi economici.

Lo scenario rimane comunque in continua evoluzione: e la realtà dei fatti ci dice che anche in questo caso a riattivare la ripresa economica globale potrà essere solo uno stimolo di matrice internazionale che aumenti domanda e produzione industriale. L’Italia e l’Europa non sono da sole in grado di provvedere a questo operato, fiaccate da anni di deflazione interna. Stati Uniti e Cina risultano invece più in grado di promuovere piani di stimolo capaci di riverberarsi su scala globale. Nella consapevolezza che anche sui commerci e sulle filiere produttive la partita sarà apertissima dal punto di vista politico: la pandemia ci insegna che la vittoria corsa per il controllo delle catene del valore in certi settori (primo fra tutti il biomedicale)  vale in certi ambiti più di diversi punti di Pil. E sia il fronte politico che quello economico andranno studiati con estrema attenzione mentre il mondo cercherà il vaccino per curare un’economia debilitata.