Per lunghi decenni, dopo la fine del lacerante conflitto ventennale per l’indipendenza e l’unità nazionale che lo vide opposto prima alla Francia, ex colonizzatrice, e poi agli Stati Uniti, quella del Vietnam è stata una politica economica e strategica di sopravvivenza. Fiero Stato nazionale, inquadrato su un ordinamento socialista nato relativamente tardi guardando alle evoluzioni del contesto globale, unificato nella sua attuale struttura nel 1975, nell’era in cui in Cina si preparava il trapasso post-maoista e in Asia Centrale lo tsunami geopolitico afghano che avrebbe accelerato il crollo dell’Unione Sovietica, Saigon è rimasta a lungo intrappolata nella sfida al sottosviluppo e nel difficile contesto regionale. Segnato, al di là del mito di qualsiasi solidarietà di campo socialista, dalle guerre di confine con la Cina e dall’intervento mirato per rimuovere il regime criminale dei Khmer Rossi dal potere nella vicina Cambogia sul finire degli Anni Settanta.
Il trampolino di lancio per il tuffo del Vietnam nel mondo dei grandi è arrivato, improvvisamente, qualche anno fa. Quando Donald Trump lanciava la sua Trade War nei confronti della Cina per danneggiare l’ascesa di Pechino, nessuno ad Hanoi si sarebbe mai aspettato che una simile vicenda consentisse al Paese di crescere a ritmi quasi impensabili. Già, perché intorno al 2019, e al netto di una progressiva crescita pregressa, gli esperti avevano identificato il Vietnam come una delle Tigri asiatiche del futuro. In effetti, negli ultimi 20 anni, il Pil vietnamita è riuscito a viaggiare mantenendo una media del 6%, balzato al 7% proprio in concomitanza della guerra dei dazi sino-americana.
Per quale motivo? Semplice: dal momento che la mossa di Trump mirava a colpire le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti, tantissime aziende straniere dislocate in Cina hanno pensato bene di trasferirsi altrove per bypassare la spada di Damocle di Washington. Dove andare, mantenendo un contesto favorevole (salari bassi e buona mole di forza lavoro) e senza la necessità di allontanarsi troppo dal Dragone? Il Vietnam, per molti, è apparsa la meta prediletta.
Un’occasione inaspettata
Saigon ha profittato essenzialmente del principio che ha visto la rincorsa delle catene del valore globali sul fronte manifatturiero a nuove frontiere di profittabilità dopo che la Cina ha cessato di essere la “fabbrica del mondo”. In fin dei conti, la stessa “globalizzazione” delle catene del valore, a lungo, non si è manifestata se non attraverso una corsa alla dispersione delle produzioni nell’inseguimento dei vantaggi competitivi sul costo del lavoro, il regime fiscale e l’attrattività agli investimenti da parte dei grandi gruppi multinazionali e in funzione della capacità di attrazione fornita da diversi governi. Il Vietnam, dopo la fase che ha visto la frontiera della produzione raggiungere Cina, Turchia, Polonia, Romania, è stata assieme al Bangladesh, la Nigeria, l’Etiopia, il Pakistan il protagonista della manifattura del XXI secolo. Avvantaggiandosi del contesto internazionale in maniera paragonabile a quanto fatto dalla Bielorussia in Europa sul crinale della sfida tra Mosca e l’Occidente.
La politica di Hanoi, in questo contesto, si è a lungo retta sul principio della ricerca di una profonda integrazione con le economie dell’area e del resto del mondo senza pregiudicare le prospettive di sviluppo interne. In quest’ottica, nota MGlobale, “si inquadrano non solo la membership dell’OMC e dell’Asean (di cui è entrato a far parte nel 1995 aderendo ai pertinenti accordi di libero scambio con Cina, Corea, Giappone, India, Australia e Nuova Zelanda), ma anche i più recenti accordi commerciali bilaterali con Giappone e Corea e la partnership con l’Unione Euroasiatica”.
Verso un futuro roseo?
La pandemia di Covid-19, per altro contenuta con ottimi risultati nel corso delle prime ondate, non ha affatto frenato la corsa dell’economia vietnamita. Se è vero che l’emergenza sanitaria globale ha affossato o frenato i sistemi economici di mezzo mondo, il Vietnam è stato uno dei pochi Paesi a salvarsi, visto che il suo Pil è cresciuto del +7.7%. Da Hanoi si è registrata un’impennata dell’export di acciaio, personal computer ed elettronica, alla quale si sono aggiunti i vantaggi derivanti dal “regalo” provocato dalla Trade War. Non male per la possibile Tigre asiatica dell’imminente futuro, se consideriamo anche che, tra il 2002 e il 2018, secondo la World Bank il governo vietnamita sarebbe riuscito a togliere dalla povertà oltre il 50% della sua popolazione.
A proposito di futuro, le autorità hanno fissato per il 2021 una crescita economica del 6%, anche se a detta di alcuni esperti tale valore potrebbe essere più elevato, orientativamente tra il 6.5% e il 7%. Il Vietnam ha inoltre fatto tesoro dei molteplici accordi commerciali firmati nel 2020. Citiamo, tra questi, l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea (Evfta), il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), ovvero la maxi intesa asiatica promossa da Pechino e l’accordo di libero scambio con il Regno Unito (Ukvfta). Devono essere menzionati anche gli accordi bilaterali stipulati tra Hanoi e la Corea del Sud e con il Giappone. Il Vietnam, inoltre, fa parte del Cptpp (Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership), all’interno del quale troviamo ben undici paesi dell’area del Pacifico.
Abbiamo citato le previsioni per il futuro. La società di consulenza britannica Center for Economics and Business Research (Cebr) ritiene che l’economia del Vietnam quintuplicherà entro il 2035. Se così fosse, Hanoi passerebbe dal 37esimo al 19esimo posto nel mondo, segnando un balzo di tutto rispetto. Lo stesso Cebr è convinto che il Vietnam si attesterà su una crescita annua media del 7,7% per i prossimi dieci anni e del 6,6% per gli anni successivi, scavalcando addirittura Thailandia e Taiwan. Nel 2017 il Pil nazionale, stimato in 223 miliardi di dollari, è cresciuto del 6.8% (lo 0.1% in più rispetto agli obiettivi del governo), mentre nel 2018 l’aspettativa era che il pil aumentasse tra il 6,5 e il 6,7%. Ebbene, nei soli primi tre mesi dell’anno la crescita toccò il 7,1%. E non sarebbe finita qui, perché altre previsioni ipotizzano che il pil del Vietnam possa rendersi protagonista di un balzo così grande al punto che nel 2050 Hanoi potrebbe raggiungere il ventesimo posto nella classifica globale, contro l’attuale 47esimo. La ciliegina sulla torta? La silenziosa quarta rivoluzione industriale che sta lentamente cambiando volto al Paese.