Ha fatto molto scalpore il fatto che nel sesto pacchetto di sanzioni europee alla Russia non sia stato incluso il “re del nickel” Vladimir Potanin, tra i più importanti oligarchi di Mosca. Ex vicepremier di Boris Eltsin e attuale fedelissimo di Vladimir Putin, secondo uomo più ricco della Russia con 33,6 miliardi di dollari di patrimonio, Potanin è stato risparmiato dall’attacco sanzionatorio europeo, complice la dipendenza di Bruxelles e dei 27 Paesi membri dell’Ue dalle forniture di nickel russe.

L’impotenza sul nickel

Dopo esser raddoppiato a 48mila dollari la tonnellata nei primi giorni della guerra tra Russia e Ucraina, il prezzo del nickel è oggi assestato poco sopra i 29.500 dollari, un prezzo del 22% superiore rispetto al periodo pre-conflitto. Mosca è il terzo produttore mondiale di nickel dopo le Filippine e l’Indonesia, coprendo circa l’11% della disponibilità globale. La sua capacità chiave sta nella potenzialità nel mercato del nickel raffinato: nel 2021 la Russia ha estratto 250.000 tonnellate, di cui 193.006 tonnellate da Nornickel, il principale produttore mondiale di nickel raffinato, di valore più pregiato rispetto a quello grezzo.

Data l’importanza di questo materiale per la transizione energetica e settori industriali come quello dell’auto elettrica, sanzionare il nickel russo è complicato. Nel 2021 le importazioni europee di questo prezioso materiale hanno toccato quota 5,92 miliardi di dollari e il peso della Russia è cresciuto dopo il bando alle esportazioni di nickel grezzo da parte dell’Indonesia toccando, per la precisione, quota 2,51 miliardi di dollari. In particolare secondo Forbes, “l’Unione europea ha acquistato da Norilsk Nickel”, la società dell’oligarca risparmiato, “il 27% del nichel importato nel 2021”.

Una quota che mostra come per Bruxelles sia difficile dire del tutto di no a ogni importazione di materie prime strategiche da Mosca. Il disaccoppiamento tra le catene del valore del Vecchio Continente e quelle di Mosca, e in parte tra quelle degli Usa e del loro rivale, non sarà mai totale. Il caso del gas naturale è emblematico e arcinoto, ma sono decisamente numerosi gli esempi di questo tipo.

Washington risparmia l’uranio russo

Gli Usa non sono dipendenti dal nickel russo ma, essendo esposti alla necessità di approvvigionarsi dai mercati mondiali partendo da una quota dominante nell’export del confinante Canada (fonte di 44% degli approvvigionamenti di Washington), non hanno toccato il patrimonio di Potanin e, di conseguenza, il suo importante colosso.

Gli Usa sono maggiormente esposti sul fronte dell’uranio: nel mercato della materia prima strategica per le centrali nucleari, infatti, Mosca è centrale per gli States assieme agli alleati Kazakistan e Uzbekistan. A inizio maggio era emerso un discorso chiaro sulla presenza di una strategia Usa per formalizzare il bando alle importazioni dalla Russia, ma nulla di tutto questo è ancora ufficiale. I dati della US Energy Information Administration certificano che il Paese importa uranio per il 22% sia dal Canada che dal Kazakistan e per il 16% dalla Russia, terza nella classifica dei fornitori agli Usa, con una quota che consentirebbe di ricevere da Washington 1,2 miliardi di dollari nel 2022.

Nella classifica seguono poi l’Australia (11%) e, quinto, l’Uzbekistan (8%). Astana, Mosca e Tashkent, nel complesso, coprono il 46% delle forniture d’uranio agli Stati Uniti, una quota difficilmente cancellabile in poco tempo.

Neon, arma segreta di Mosca

La Russia non ha subito sanzioni nemmeno sul fronte del gas neon, un materiale importante in cui, invece, proprio Mosca ha giocato d’anticipo contro l’Occidente. Il gas nobile in questione è necessario per produrre semiconduttori, che alimentano qualsiasi cosa, da smartphone e laptop alle automobili. “Il gas”, ha scritto Foreign Policy, “è un sottoprodotto della produzione russa di acciaio, che viene poi inviato in Ucraina per essere purificato e, a sua volta, spedito ai produttori di semiconduttori all’estero”. Tutto questo, ovviamente, “in tempo di pace”.

Bisogna sottolineare che “circa la metà del neon mondiale per semiconduttori proviene da due sole società ucraine, entrambe costrette a chiudere le loro operazioni durante l’invasione russa”. Una di queste è tra i tesori del Donbass agognati dalla Russia. Il blocco delle forniture di neon al mercato globale, sottolineava ad aprile Start Mag, ha reso ulteriormente più critica la problematica sul mercato mondiale dei semiconduttori. Esso rappresenta una crisi strutturale che può riverberarsi su quel Chipageddon che si sta prefigurando come la grande crisi industriale del XXI secolo. Nella prima settimana di giugno il governo russo ha imposto una restrizione alla vendita all’estero dei gas nobili, di cui complessivamente controlla il 30% del mercato mondiale, e spiegato che le vendite all’estero di prodotti come il neon saranno subordinate all’ottenimento di un permesso speciale dallo Stato; la politica resterà in vigore fino al prossimo 31 dicembre. In questo campo, nemmeno è possibile immaginare sanzioni occidentali. Anzi, è la Russia a imporre un gioco duro.

Gli altri fronti caldi

Una serie di altri beni strategici per l’industria sono stati interessati da sanzioni a macchia di leopardo o restrizioni tali da non far pensare a rotture totali. Il 9 maggio scorso, ad esempio, il governo britannico ha annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni, sia contro Russia che Bielorussia: dazi più alti all’importazione dei metalli preziosi, come platino e palladio, con una tariffa del 35% imposta a un mercato dal valore di circa 2 miliardi di dollari, ma nessun bando totale. Usa e Ue non hanno fatto altrettanto: in particolare, la Russia conta per il 40% della produzione mondiale di un altro materiale fondamentale per le industrie a più alto tasso di complessità tecnologica.

Pilatesca invece la soluzione adottata sull’alluminio. Cinque anni fa gli Usa, in pieno braccio di ferro con la Russia, provarono a imporre sanzioni su Rusal, primo produttore mondiale di alluminio e sul suo oligarca Oleg Deripaska. Il boom dei prezzi fece un clamore tale da portare a un rientro dalle sanzioni stesse a fine 2018. Oggi invece Deripaska e il suo patrimonio personale sono sotto sanzioni da parte del campo euroatlantico, ma Rusal può operare. La Russia con 4,5 miliardi di dollari di esportazioni è il secondo maggior venditore di alluminio al mondo. I Paesi verso cui si dirigono i prodotti made in Russia sono Turchia (20%), Giappone (14%), Cina (10%), Paesi Bassi (9%), Corea del Sud (7,2%) e Italia (5,6%): sei Paesi coprono i due terzi dell’export russo e Cina a parte sono tutti vicini o membri del campo occidentale.

Le sanzioni, un Giano Bifronte

Si capisce dunque il perché di un sistema sanzionatorio a macchia di leopardo che vede Mosca più colpita in alcuni ambiti e trattata col guanto di velluto in altri: l’integrazione della Russia nella globalizzazione e nelle catene del valore ha retto a otto anni di braccio di ferro e non finirà nemmeno col grande spartiacque della guerra in Ucraina. Indipendentemente dai voleri di Vladimir Putin e dell’Occidente. Vero e proprio caleidoscopio, le sanzioni sono estremamente complesse: Usa, Europa e alleati mettono sotto pressione la Russia in settori come la finanza, la meccanica industriale, i beni di consumo e contribuiscono a danneggiare la condizione economica del Paese e della sua fascia più povera, oltre ovviamente a mettere in difficoltà gli oligarchi, ma risparmiano quei settori critici in cui la dipendenza dalla Russia è più strutturata.

Parimenti, la Russia aumenta la sua dipendenza dall’esportazione di materie prime strategiche ma in questo campo riesce a puntare alla tempia dell’Occidente la pistola del decoupling totale. Opzione nucleare che non farebbe altro, però, che mandare una volta per tutte nelle braccia della Cina il Paese guidato da Vladimir Putin. Non a caso, sia che si parli di materie prime che di gas o derrate alimentari, la grande vincente della guerra in Ucraina e delle sanzioni è Pechino. In grado di continuare ad accaparrarsi forniture a prezzi privilegiati dalla Russia e ad essere corteggiata come mediatrice dall’Ovest mentre nel mondo infuria la tempesta scatenata dal conflitto ucraino.

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