Nell’analisi di scenario di una possibile serie di conseguenze che un’invasione russa dell’Ucraina potrebbe scatenare l’elemento economico è spesso sottolineato solo da un versante ben preciso: il tema della criticità della dipendenza energetica dell’Occidente, Europa in testa, dal gas naturale russo e delle possibili conseguenze che un calo o un blocco delle forniture potrebbero cagionare.
Certamente questo tema è importante, ma il campo va esplorato in tutta la sua ampiezza, perché spesso vengono trascurate due importanti questioni: la prima è quella delle conseguenze di lungo termine di una partita che rischia di generare, nel caso in cui arrivasse alle estreme conseguenze, un’ondata di caos e sfiducia per mercati, imprese, operatori finanziari e governi tale da colpire duramente le prospettive di ripresa dell’economia mondiale. La seconda, la più importante, riguarda la Russia nel suo complesso e ha a che fare con una semplice domanda: l’economia di Mosca è in grado di sostenere uno sforzo bellico o di elevata volatilità globale sul medio-lungo periodo?
Quest’ultima domanda ha una risposta incerta, ma le prospettive per la Russia sono decisamente complesse se guardiamo al trend del deprezzamento del rublo, la valuta nazionale, negli ultimi mesi. Da ottobre a oggi il rublo ha perso circa il 10% del suo valore nei confronti del dollaro pur in un contesto in cui il superciclo delle materie prime, l’aumento dei prezzi di gas e petrolio, l’inflazione statunitense e l’utilizzo a fini strategici dell’apertura e delle chiusure delle forniture energetiche in Europa offrivano diverse frecce all’arco di Mosca. Il cambio era di un dollaro per 69,82 rubli il 25 ottobre scorso ed è arrivato a un dollaro per 79,23 rubli nella giornata del 26 gennaio. In seguito è leggermente sceso, oscillando però su una banda ben più elevata di quella dei mesi scorsi: il 12 gennaio servivano 76,79 rubli, un valore del 9,98% superiore rispetto a quella del 25 ottobre scorso, dove la divisa russa aveva ridotto al minimo il suo divario dopo mesi di graduale apprezzamento.
L’aumento si inserisce in un trend generale di deprezzamento del rublo che prosegue dall’inizio della pandemia: da gennaio 2020 a gennaio 2022 il rublo si è svalutato del 20% rispetto al dollaro e questo segnala che:
- La corsa globale agli asset valutari sicuri nell’era pandemica premia ancora il biglietto verde.
- Il fatto che il Pil russo sia fortemente dipendente dalle esportazioni (nel 2019 coprivano il 28,54% del Pil, nel 2020 complice la pandemia il 25,5%) e che queste esportazioni siano legate a settori come l’energia (gas, petrolio), l’agroalimentare (grano), il minerario (nickel e altri materiali) e le tecnologie critiche (nucleare civile, armi) prezzati in dollari sui mercati internazionali rende il rublo dipendente dalle fluttuazioni del mercato valutario guidato dal biglietto verde.
- In quest’ottica, anche il prezzo dei beni di consumo e dei prodotti alimentari finiti da cui la Russia è dipendente per soddisfare il mercato interno può crescere. A luglio 2021, ricorda l’Ispi, “circa il 60% dei russi spendeva più della metà delle proprie risorse in prodotti alimentari. Nel novembre 2021, il Presidente Putin ha confermato che la domanda si sta spostando da turismo, trasporti e spese per la ristorazione verso beni e materie prime”.
- La “bomba” inflativa americana, di conseguenza, si scarica sul resto del mondo imponendo alla Russia di importare inflazione e deprezzamento.
- La banca centrale russa, nonostante molte contromisure (compreso l’acquisto di oro) per mostrare come resistente il sistema nazionale, non tiene il passo delle principali istituzioni finanziarie come Bce e Fed.
In caso di invasione dell’Ucraina Joe Biden ha già avvertito Vladimir Putin e incaricato gli apparati federali e la finanza Usa di adoperarsi per escludere di fatto la Russia dal circuito globale di pagamenti Swift, fattispecie che rappresenterebbe l’opzione nucleare nella guerra economica a Mosca e renderebbe, di fatto, il rublo carta straccia, precludendo alla Russia l’import-export di capitali, il commercio con larga parte dei partner, l’accumulazione di riserve valutarie, il controllo del mercato interno.
Di conseguenza, la sostenibilità economica di un’operazione militare di breve o medio cabotaggio in Ucraina sarebbe necessariamente vincolata alle suddette criticità, a cui si aggiungerebbero inevitabilmente fenomeni di fughe di capitali, nuove sanzioni e un’offensiva martellante da parte dell’Occidente a guida americana contro l’economia nazionale. In un contesto che vede due russi su cinque non possedere alcun tipo di risparmi e quasi 20 milioni di persone (13% della popolazione) vivere al di sotto della soglia di povertà, la gestione del fronte interno diverrebbe decisamente critica per Mosca.
E del resto la pandemia ha aumentato la sproporzione tra l’economia russa e quella dei suoi rivali. Attualmente, la quota che la Russia occupa nell’economia mondiale (poco sopra il 3%) è scesa ai livelli più bassi del secolo, raggiungendo valori che non venivano sfiorati dai primi anni del 2000, dopo il grande danno del default del 1998. Ma valutare in termini semplicemente economicistici le prospettive della Russia sarebbe un errore: come ogni impero, Mosca ragiona (e lo ha dimostrato in passato) di non temere le batoste economiche per raggiungere obiettivi geopolitici. Una guerra aperta tra Stati condotta contro l’Ucraina, tuttavia, causerebbe decisamente molti più grattacapi a Mosca in termini di sostenibilità, costi e prospettive di quanto abbiano fatto gli interventi in Medio Oriente, le operazioni passate in Stati come la Georgia o il sostegno ai miliziani del Donbass. E potrebbe privare Mosca di fonti di reddito e di una valuta credibile. Pur non rappresentando il freno più importante, la questione economica e la debolezza del rublo sono un importante potere frenante avente la possibilità di condizionare la capacità operativa di Mosca.