Nelle prossime settimane il governo giallorosso si potrebbe trovare di fronte all’ennesimo nodo Alitalia, alla necessità di tornare nuovamente a discutere del futuro economico e strategico della compagnia aerea di bandiera per capirne prospettive di sviluppo, piani di rilancio e, soprattutto, disponibilità finanziarie.

La cordata di partenza, ufficializzata dall’allora in carica governo M5S-Lega in estate, è quella formata da Ferrovie dello Stato, dalla compagnia statunitense Delta Airlines e da Atlantia, il gruppo finanziario della famiglia Benetton preferito agli altri concorrenti al ruolo di terzo socio, tra cui l’imprenditore Claudio Lotito, per la presenza stabile nel business aeroportuale.

Tralasciando la questione del legame tra i Benetton e il caso del Ponte Morandi, da accertare in via giudiziaria, la presenza di Ferrovie dello Stato e Delta avrebbe, in linea teorica, una razionalità strategica. Fare entrare il gruppo di trasporto ferroviario nella compagnia aerea di bandiera, da un lato, significa spingere fortemente in direzione del trasporto intermodale e della razionalizzazione infrastrutturale di cui il Paese ha bisogno per rafforzare la sua connettività interna. Coinvolgere il colosso a stelle e strisce, dall’altro, vorrebbe dire aprire alla creazione di un hub europeo per Delta, che specie dalla costa orientale degli States guarda con interesse al mercato europeo.

Proprio Delta, però, sta creando problemi al governo italiano. Forte della sua posizione primaria nel mercato aereo mondiale, la compagnia statunitense ha iniziato a dettare condizioni gravose. Delta con il 10% del capitale punta a far rientrare Alitalia nella sua galassia di interessi, preferendo un ragionamento estrattivista di breve termine. Chiedendo come condizioni per un impegno che, in ogni caso, non è destinato a estendere oltre il 12% il controllo della gestione operativa, il potere di veto sull’ingresso di nuovi soci e la modifica di numerose rotte. Un piano traspare in controluce dalle mosse di Delta: sopprimere le rotte Alitalia verso il Sud America utilizzando come alternativa il passaggio per l’hub globale di Atlanta. Richiesta esosa in cui si può leggere la bulimia di potere degli americani, che vedono nella debolezza di Alitalia un’opportunità. Ma nella perfetta logica dei nostri tempi, ogni ragionamento sensato di politica industriale è da Delta subordinato a un approccio duro nei confronti di un governo percepito come debole e arrendevole. Indicativo della volontà di Delta è stato il messaggio lanciato proprio in America Latina, con l’acquisto del 20 per cento di Latam, una compagnia cilena, valutata 1,7 miliardi di euro, che prepara lo sbarco in forze nel Cono Sud.

In quest’ottica, la fidelizzazione dei clienti Alitalia ai voli Delta e l’ingresso stesso del colosso Usa nel gruppo metterebbe a rischio gli incassi derivanti dalle rotte Italia-Usa, il principale bacino dei ricavi della compagnia tricolore in amministrazione straordinaria dal 2 maggio 2017. L’assenza di una politica industriale capace di dirigere una fusione tra componenti tanto diverse e di imbrigliare gli animal spirits degli americani ha messo il governo all’angolo. Il governo Conte ha segnata in rosso la data del 15 ottobre, termine ultimo prima che l’attuale amministrazione straordinaria avvii l’iter di messa in liquidazione di Alitalia. Cedere alle condizioni di Alitalia o imbarcarsi nel tunnel buio del rischio fallimento? Un dilemma che prevede solo possibilità di sconfitta e una sconfessione di un piano originario sicuramente non privo di potenzialità ma lasciato decadere per l’incuria del dossier e la mancanza di volontà di programmazione politica.