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Economia /

A Londra non si parla d’altro: il Regno è allo sbando e il nuovo primo ministro ha promesso l’impossibile e di sicuro fallirà nel provvedere a un’uscita efficiente dall’Unione europea. La brillante carriera politica di Boris Johnson potrebbe persino concludersi a breve dopo le ultime mosse che hanno indispettito non poco Il Parlamento e la Scozia, sempre più indipendentista fra le mani della nazionalista Nicola Sturgeon.

Insomma, la Brexit si è dimostrata un percorso estremamente arduo – e molto probabilmente anche fallimentare – dopo la tentata sospensione del Parlamento non andata in porto dopo la delibera della Corte Suprema e le prossime dimissioni dello Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow.

Tuttavia, nonostante in termini puramente politici la situazione possa risultare tragica, è un luogo comune che la vita economica del Regno debba andare di pari passo con quella governativa. Più di una fonte ha riportato la possibilità di una recessione economica della Gran Bretagna dovuta alla Brexit, secondo dati come la chiusura dei confini e la difficoltà ad accordarsi fra compagnie – o sedi di una stessa compagnia – che si muovono fra gli Stati membri dell’Ue e il Regno Unito.

Certo che non sarà più facile promuovere affari congiunti e accordi bilaterali fra i due territori e le aziende che vi operano all’interno. Ma è anche vero che negli ultimi anni a partire dalla Brexit il Paese non ha fatto che accrescere la sua presenza economica, specialmente nell’ambito finance and technology (fintech, in breve).

Le ultime stime di Innovative Finance per la prima metà del 2019 riportano una crescita record di 2.9 miliardi di sterline di fondi ricevuti dalle compagnie che operano nel settore per un totale di 123 accordi. Nonostante il volume degli accordi sia diminuito, il valore dei singoli accordi sembra aumentato, proiettando una crescita maggiore rispetto l’anno scorso (3.3 miliardi in tutto il 2018).

Per dare una stima dell’interesse del pubblico nella fintech britannica, da settembre 2018 fino ad oggi sono stati investiti più di 65 milioni su Crowdcube, probabilmente il sito di fundraising per aziende più famoso del Regno Unito, secondo il suo Co-fondatore, Luke Lang.

La forza finanziaria e tecnologica della capitale britannica è, quindi, molto difficile da sorpassare, per quanto diverse città ci stiano duramente provando nell’Europa continentale. Il volume di servizi terziari e finanziari esportato dal Regno era di circa 88 miliardi di dollari nel 2018, secondo TheCityUK. Ad oggi le stime riportano un’ulteriore crescita del volume di affari totale del Paese, facendo solo immaginare quanto il settore economico sia, in realtà, largamente inalterato dalla Brexit.

Nonostante la proiezione ottimista per il mercato britannico, però, banche e aziende si stanno preparando per lo scenario peggiore: il cosiddetto No-deal Brexit

Ad avere più timore di eventuali ripercussioni sono le SMEs, cioè le piccole e medie imprese, non disponendo di grandi capitali per far fronte alle possibile difficoltà che un’uscita senza accordi possa comportare.

In fondo, le aziende britanniche basano buona parte delle proprie risorse umane nei cittadini dell’Ue, che si spostano chi alla ricerca di prestigio personale, chi di maggiori disponibilità finanziarie, nella capitale per riempire i vuoti di un mercato in costante espansione. La chiusura del confine e l’obbligo di un visto lavorativo potrebbe scoraggiare l’immigrazione dei talenti europei, girandoli verso altri mercati in crescita e in competizione con quello di Londra, come Berlino, Amsterdam o Lisbona.

Grandi aziende con maggiori possibilità di capitale hanno già provveduto all’apertura di sedi e compagnie sussidiarie nei vari paesi dell’Unione, ma aziende di minore statura potrebbero trovarsi obbligate ad operare in un mercato chiuso, per quanto voluminoso e performante. 

Tuttavia, bisogna anche considerare un elemento meno “matematico”: Londra è una delle città leader del mondo in molti ambiti e il prestigio di vivere e lavorare nella City non si perderà con l’uscita dall’Unione. Sia poiché la popolazione straniera non è solo europea sia perché la possibilità e il prestigio di avere l’esperienza londinese sul curriculum ha un valore non da poco per molti, specialmente nel campo finanziario e tecnologico. È poco probabile che il flusso migratorio di studenti e lavoratori declini benché meno che si fermi d’improvviso.

Lo Stato britannico e la sua posizione globale nel mondo potranno anche uscirne indeboliti dall’uscita. Presumere, però, che anche la sua leadership economica dovrà subire lo stesso effetto non è scontato e si muove in un orizzonte puramente retorico. La classe politica inglese – e non britannica – è decisa a uscire per ora entro il 31 ottobre. Una possibile estensione a dicembre 2020 è stata discussa sottobanco e riportata per dei giorni dalle grandi testate del Paese, ma la concretizzazione della Brexit è nell’aria.

Ciò che possono fare i sudditi di sua Maestà, per ora, è solo aspettare e sperare per il meglio.

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