Dopo un contenzioso durato mesi, il Consiglio europeo ha trovato un accordo quadro sul tema del Recovery Fund destinato a finanziare con 750 miliardi di euro da destinare ai Paesi membri dell’Unione attraverso prestiti e contributi a fondo perduto i programmi di rilancio contro il Covid-19.

L’accordo sblocca la lunga discussione sul bilancio comune europeo dopo un complesso stallo che ha costretto i 27 Paesi membri a ritardare all’inizio del 2021 l’erogazione dei primi fondi. La complessa architettura di Next Generation Eu apre alle prime politiche di mutualizzazione del debito nel contesto comunitario e a una profonda discussione sul ruolo che il Recovery potrà giocare nel garantire una sostenuta ripresa all’Europa.

Ci sono diverse questioni di primo piano che vanno analizzate conformemente al dossier Recovery Fund.

La prima è una constatazione di carattere politico e riguarda i rapporti di forza interni all’Unione. L’ennesima mediazione che ha sbloccato l’impasse superando la minaccia di veto di Polonia e Ungheria è stata la garanzia di Angela Merkel su un’applicazione circoscritta e ordinata delle clausole controverse sullo Stato di diritto. Negoziazione che certifica il ruolo della Cancelliera come perno dell’Eurozona. Dopo aver promosso il Recovery Fund in sponda con la Francia e aver mediato tra Paesi mediterranei e Paesi del Nord l’applicazione della terna Bei-Sure-Mes nel corso della prima ondata, la Cancelliera dimostra il suo potere politico e la sua credibilità come negoziatrice incassando il sostegno alle sue proposte da Viktor Orban Mateusz Morawiecki. La Merkel si è disposta aperta al compromesso. “Finché sarò in vita non ci sarà alcuna condivisione del debito”, aveva detto infatti nel giugno del 2012, nel pieno della crisi del debito sovrano che rischiava di travolgere l’Eurozona.

Tra i Paesi convinti in precedenza dalla Merkel c’è stata l’Olanda di Mark Rutte. Che ha avuto come contropartita l’inserimento della clausola sul “freno d’emergenza” che consente ricorsi contro progetti giudicati non conformi alle linee Ue presentate per l’approvazione da parte di Stati terzi. E la garanzia di profonde riforme che gli Stati che presenteranno piani per il rilancio dovranno imbastire nei settori giudicati più critici dall’Unione, dalla previdenza alla giustizia. Il secondo punto è dunque la constatazione che il Recovery Fund potrà accelerare un’ulteriore concentrazione del potere europeo sull’asse nordico-renano. La Commissione, guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen, dovrà valutare i progetti in cooperazione con la task force guidata da Celine Gauer, francese; alle spalle, i Paesi “anseatici” guidati dall’Olanda potranno sempre far valere i poteri del freno d’emergenza. Che sembrano disegnati apposta per colpire chi, come l’Italia, è in ritardo sulla presentazione di piani articolati e rischia di arrivare in ritardo all’appuntamento o vede settori vari, dalla portualità al turismo, sotto la spada di Damocle delle procedure di infrazione.

Terzo tema è la natura dello stimolo europeo: sarà decisivo per la ripresa? Indubbiamente il fondo è corposo e promette di giocare un ruolo importante nelle future dialettiche politiche europee. Il governo italiano, in particolare, che sarà il primo beneficiario in termini relativi ed è al nono posto tra i beneficiari netti di NextGen, troppo spesso ha dato l’idea di considerare il Recovery Fund come un sostituto e non un sostegno ai programmi nazionali. Ma difficilmente sarà il Recovery Fund sic et simpliciter a cambiare le prospettive della nostra economia, e dunque dopo l’approvazione ufficiale del piano italiano sarà bene inserire in progetti strategici e coerenti, adeguatamente supportati dal deficit nazionale, i finanziamenti comunitari. Come fatto da chi, come la Francia, incardina il piano in una visione di lungo periodo in sostegno all’azione dello Stato in campi come le infrastrutture, l’energia, la transizione ecologica.

Al di là delle dichiarazioni, basta vedere le cifre in ballo per segnalare come a risultare decisivi saranno, ovviamente, i programmi nazionali. E qui veniamo al quarto punto: la natura “compromissoria” del Recovery Fund e la natura sovranazionale dell’Ue impedisce giocoforza stimoli paragonabili a quelli messi in campo dagli Usa, che a luglio hanno esaurito i 2,2 trilioni di dollari del Coronavirus Aid, Relief, and Economic Security (Cares) Act approvato in primavera e ora lavorano a un nuovo pacchetto di taglia paragonabile al Recovery Fund; di taglia paragonabile anche i pacchetti anti-crisi del Giappone; il proseguio della pandemia e la lentezza dei processi decisionali impediscono che la crisi possa essere tamponata con un intervento-lampo come quello da 500 miliardi messo in campo dalla Cina a maggio; i fondi, inoltre, arriveranno tra almeno sei mesi. Un orizzonte temporale estremamente incerto, in cui non si sa se l’arrivo dei vaccini avrà fatto regredire la pandemia o le economie europee dovranno dibattersi ancora tra crisi e rischi di nuovi lockdown.

In conclusione, il Recovery Fund è sicuramente un tassello importante della politica comunitaria. Ma, una volta di più, testimonia se ce ne fosse bisogno quanto, in fin dei conti, decisiva nell’Unione sia la capacità politica degli Stati di mediare per il proprio interesse nazionale. Certifica la necessità di pensare strategicamente. E di non pensare all’Unione come a una “supplente” del sistema Paese, come troppo spesso si tende a fare in Italia. L’Europa che esce dalle negoziazion sul fondo è un’Europa ancora più tedesca: e non ci stupiamo, dato il consolidato di mesi di negoziazioni guidate proprio dalla cancelleria di Berlino.

 

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