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Il sabotaggio alle linee dei due gasdotti Nord Stream ha portato, ancora una volta, al centro dell’interesse dell’opinione pubblica il tema della sicurezza energetica. Le infrastrutture che trasportano idrocarburi, quelle di trasformazione e distribuzione nonché le stesse fonti di approvvigionamento, rientrano nell’agenda delle politiche di sicurezza dei Paesi da tempo, per evidenti motivazioni legate allo sviluppo economico.

Il conflitto in Ucraina, che assumiamo a torto come unica causa scatenante dell’attuale crisi dei prezzi del gas e del petrolio, ha accelerato in Europa occidentale lo sganciamento dalla Russia come fonte privilegiata per il rifornimento di materie prime energetiche, ma poco si è fatto, e altrettanto poco si è parlato, di un’altra fondamentale problematica: quella della sicurezza tecnologica.

Con questi termini intendiamo, nello specifico, la sicurezza della filiera di approvvigionamento di microchip e semiconduttori. Il recente parossismo della crisi pandemica ha evidenziato come l’Europa sia particolarmente fragile da questo punto di vista: la chiusura dei porti cinesi, che ha provocato la paralisi del traffico navale e la crescita esponenziale del prezzo dei noli, ha messo in seria difficoltà diversi settori industriali non solo ad alta e altissima tecnologia, come quello automobilistico.

Microchip e semiconduttori, infatti, vengono usati in diversi beni di uso comune, dagli smartphone sino alle lavatrici, senza considerare l’industria della Difesa, che ne fa largo uso per i propri sistemi elettronici.

Si tratta quindi di beni vitali e la maggior parte di essi (il 54%), a livello globale, proviene da Taipei prodotti dalla Taiwan Semiconductor Manufactoring Company. La chiusura dei porti cinesi per l’emergenza pandemica, ci ha dato un piccolo assaggio di quello che potrebbe succedere in un futuro non molto lontano, ovvero quando Pechino deciderà di riprendersi l’isola “ribelle” manu militari e potrà così controllare la produzione della maggior parte di microchip ad altissima prestazione, utilizzati largamente dalle industrie di armamenti: il Dragone potrebbe decidere, arbitrariamente, di “chiudere i rubinetti” dei semiconduttori come strumento di pressione internazionale, mettendo in crisi diversi settori produttivi in Europa.

La Cina già oggi ha un certo tipo di controllo “a monte” della produzione di microchip, in quanto oltre a possedere tra i più importanti giacimenti di minerali delle Terre Rare (Ree – Rare Earth Elements) che si utilizzano per la loro produzione, ne controlla anche la filiera di raffinazione per circa il 97%. Gli stessi Stati Uniti, nonostante siano anch’essi un Paese produttore di Terre Rare, sono ben lontani dalla capacità cinese, tanto che devono importarne circa l’80%.

Pechino, da quest’ultimo punto di vista, ha già dato un assaggio di quello che potrebbe fare in casi estremi: a luglio 2020 ha elevato sanzioni a Lockheed Martin che hanno incluso l’interruzione della fornitura di materie prime, comprese le Ree, che come abbiamo visto sono cruciali per la produzione avanzata di armi. Una mossa che avevamo profetizzato in tempi non sospetti, quando a maggio del 2019 vi avevamo raccontato della visita “a sorpresa” del presidente Xi Jinping nello stabilimento della Jl Mag Rare Earth Co. Ltd, azienda leader nel settore dell’estrazione e produzione di questi elementi.

Possiamo quindi immaginare quanto sarebbe impattante per l’economia occidentale se Pechino riuscisse a controllare anche la maggior parte della produzione di microchip: avrebbe una leva strategica difficilmente controbilanciabile e pertanto si aprirebbero scenari geopolitici in cui sarebbe molto complicato contenere le mire espansionistiche globali del Dragone.

Se dal punto di vista delle sicurezza energetica sono stati presi provvedimenti di emergenza per limitare la nostra dipendenza dalla Russia – gettandoci però tra le braccia di altri Paesi non propriamente stabili e amici – dal punto di vista di quella tecnologica siamo ancora in fase embrionale, pertanto è necessario ripensare alla postura da tenere in politica estera per quanto riguarda lo scacchiere indo-pacifico.

La soluzione ideale, per l’Europa, sarebbe quella di costruire una filiera produttiva di semiconduttori casalinga, per potersi smarcare dalla dipendenza estera, ma il Vecchio Continente è ancora indietro rispetto ad altri attori: nel 2021 le società europee hanno rappresentato solo l’8,5% delle vendite mondiali. Con il cosiddetto Chips Act, la Commissione Europea ha stanziato 43 miliardi di euro per aumentare la produzione e arrivare nel 2030 a una quota di mercato del 20%, ma è ancora poco per raggiungere l’autonomia tecnologica.

Occorre pertanto stimolare la messa a sistema dei maggiori centri di ricerca europei, individuando alcuni hub produttivi che dovrebbero lavorare in sinergia, non in competizione, per poter produrre microchip ad altissime prestazioni di nuova generazione (intorno ai 3 nanometri) finora fabbricati solamente in Estremo Oriente tra Taiwan e la Corea del Sud.

L’avvio di un’industria simile, però, richiede tempo: riportiamo a mero titolo esemplificativo il caso italiano della STMicroelectronics che, utilizzando fondi del Pnrr pari a 292,5 milioni di euro su di un fabbisogno totale di 730, aprirà un nuovo stabilimento a Catania per produrre wafer al carburo di silicio che dovrebbe essere ultimato non prima del 2026. Altri progetti simili stanno partendo altrove in Europa, come in Francia, ma il fattore tempo impone una seria riflessione sull’approccio che l’Ue dovrà necessariamente avere riguardo le linee di approvvigionamento tecnologico, che come già detto partono dall’Estremo Oriente.

Quanto accade nell’Indo-Pacifico dovrebbe pertanto avere la stessa importanza, per noi europei, di quanto accade alle nostre porte, in Ucraina. Sarà pertanto necessario ridefinire le politiche di sicurezza legate alla libertà di navigazione che non devono più solamente guardare agli stretti marittimi a noi più prossimi, ma a quei mari dove si sta giocando la vera partita per l’egemonia globale, ovvero gli specchi d’acqua che vanno dal Mar del Giappone sino all’Oceano Indiano.

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