Dopo il bagno di sangue di ieri il greggio statunitense Wti ha riaperto le contrattazioni nelle sedute del 21 aprile con un netto guadagno che ha portato il suo prezzo a breve termine nuovamente in territorio positivo. Ieri il Wti nelle contrattazioni era sceso fino a -37 dollari a barile per quanto concerneva i contratti spot in consegna a marzo, segno di una forte pulsione finanziaria ribassista.

Poche ore dopo la chiusura dei mercati nordamericani le prime sessioni della nuova giornata in Asia hanno riportato, nei limiti del possibile, un minimo di serenità facendo assistere alla crescita del Wti fino a 2 dollari al barile.

Ma perchè si è assistito a un tracollo tanto importante del principale greggio Usa? Gioca sicuramente un ruolo US Oil Fund, l’Etf che ha scatenato la notevole pulsione ribassista sull’oro nero. Esso, sottolinea Repubblica, controlla futures per 3 miliardi di dollari e dal 17 aprile “ha cominciato a spostare il 20% del portafoglio sul contratto di giugno. In pratica, si tratta di 760 milioni di dollari che non solo condizionano il prezzo ma scatenano una reazione a catena tra gli altri operatori, costretti a loro volta ad anticipare la transizione”. Ma c’entrano, in primo luogo, dinamiche strutturali del mercato.

La lezione del crollo del greggio Wti in proporzione agli altri benchmark più importanti (come il Brent del mare del Nord) è istruttiva nel ricordarci come quelli delle materie prime siano prezzi di matrice finanziaria, fortemente dipendenti dalla salute economica del momento. Il barometro, per gli Stati Uniti e il resto del mondo, segna che la tempesta economica vera e propria deve ancora scatenarsi in tutta la sua forza: la domanda di greggio resta anemica, i siti di stoccaggio sono pieni, l’accordo “del secolo” tra Usa, Russia e Arabia Saudita deve ancora entrare a pieno regime. Era quasi atteso, dunque, che i contratti per maggio avrebbero subito un forte ridimensionamento di valore: l’accordo non avviene in una fase di domanda rampante, ma nel periodo più acuto dei lockdown internazionali per il coronavirus.

Oil Price sottolinea inoltre la discrepanza di circa 40 dollari al barile che nella serata del 20 aprile si registrava tra il valore dei contratti sul petrolio Wti di maggio e quelli di giugno, che erano ancora commerciati in territorio positivo. In questo contesto, il crollo dei prezzi a breve periodo segnala in particolare le scarse attese di vedere una prematura inversione della tendenza ad accumulare scorte che sta gradualmente saturando i siti di stoccaggio. Le principali economie del pianeta continuano ad accumulare greggio, riducendo il consumo e la quota di raffinazione e lavorazione, in vista di tempi migliori.

Secondo alcune stime riportate da Rystad Energy, infatti, i livelli di stoccaggio del petrolio in tutte le principali strutture del mondo sono già saliti a circa tre quarti della capacità massima sin da gennaio, quando in Cina, Paese che per il suo peso economico risulta il maggior importatore di greggio, impianti e raffinerie hanno dovuto chiudere per lo scoppio dell’epidemia di coronavirus. Il petrolio era in condizioni di eccesso di offerta prima della crisi e ora conosce un effetto spiazzamento, specie nel contesto Usa dove i produttori chiedono prezzi elevati per operare in guadagno. Come sottolinea Giuseppe Sersale, Strategist di Anthilia Capital Partners Sgr, “la price action, senza precedenti, mostra, a quanto pare, la disponibilità degli operatori a pagare grosse cifre, pur di non vedersi recapitare del greggio Wti che non hanno dove stoccare”.

Tra aprile e maggio c’è da attendersi una fase di elevata volatilità ed umoralità nei prezzi del petrolio che potrebbe colpire le principali economie produttrici: il tema più importante sarà capire se la tensione sui prezzi si limiterà al greggio texano o si estenderà anche all’indice Brent, per ora al riparo dalla tempesta. A fare la differenza saranno i segnali di un effettivo superamento del lockdown e la ripresa delle attività su scala globale: il vero fattore di destabilizzazione del prezzo del petrolio, in fin dei conti, è il coronavirus stesso, con i suoi effetti frenanti sull’attività economica su scala globale.