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Il coronavirus ha stimolato una nuova ondata globale di stimoli monetari da parte di numerose delle principali banche centrali del pianeta. Ha iniziato la Banca del popolo cinese, che ha puntato a rispondere all’emergenza economica e finanziaria del contagio e della sfiducia ad esso seguita con una gigantesca iniezione di liquidità nel sistema: a febbraio la Cina ha immesso in circolo 750 miliardi di dollari, 50 in più di quelli messi in campo dal piano Paulson del 2008, manovra emergenziale del governo Usa seguita al fallimento di Lehmann Brothers.

Si è poi mossa la Bank of Japan, che ha colto al volo l’occasione dell’emergenza per garantire a Tokyo uno stimolo economico dopo il tonfo del Pil a fine 2019 e in vista degli ingenti investimenti attesi per il rush finale della corsa verso le Olimpiadi estive.

Infine la Fed è scesa in campo. Nella giornata del 3 marzo, mentre gli Usa erano concentrati sulle primarie democratiche e il Super Tuesday, ad aprire le danze è stata la filiale di New York, che fra asta repo e term ha impostato uno stimolo di 180 miliardi di dollari, 108,6 dei quali per garantire fluidità e liquidità agli scambi sul brevissimo termine. In seguito, il governatore Jerome Powell ha annunciato un nuovo taglio dello 0,5% dei tassi di sconto sul denaro giustificandolo con le dinamiche emergenziali del coronavirus.

C’è un curioso scarto temporale tra la manovra di Powell e le contemporanee notizie dei mercati finanziari. Il giorno prima, infatti, Wall Street aveva conosciuto il maggior rimbalzo della sua storia dopo aver perso oltre il 10% nella settimana precedente, la peggiore dalla Grande Recessione ad oggi. In una giornata il Dow Jones ha guadagnato quasi 1.300 punti, segnando il maggior rialzo dai tempi dell’avvio del quantitative easing nel marzo 2009. Il giorno successivo, quello dell’annuncio della Fed, il clima è tornato invece a farsi pesante: il Dow Jones è andato nuovamente sotto la soglia psicologica dei 26.000 punti perdendo il 2,94%, lo S&P500 ha perso il 2,81% e il Nasdaq è retrocesso del 2,99%. Un ottovolante che segnala il ritorno di una notevole volatilità sui listini e che dovrebbe però portare a riflettere sull’effettiva utilità di nuovi allentamenti alle restrizioni sul denaro in un’epoca in cui i mercati sono sovradimensionati.

Il Qe globale ha contribuito a plasmare l’attuale sistema. Complice l’immissione di 20.000 miliardi di dollari nel sistema finanziario globale dalla Grande Recessione ad oggi, le quotazioni azionarie nell’area che comprende Stati Uniti, Unione europea, Regno Unito e Giappone si sono dilatate, tra il 2009 e il 2019, da circa 30mila a quasi 80mila miliardi di dollari. Le borse si sono assuefatte alla dipendenza da liquidità facile, che raramente ha preso la strada dell’economia reale finendo a finanziare buyback azionari, dilatazioni dei dividendi, operazioni speculative.

Ora, rischia di creare problemi l’atteggiamento delle banche centrali del pianeta, che hanno voluto cogliere l’occasione del panico da coronavirus per nascondere la testa sotto la sabbia e negare la realtà di una situazione delicata, ritenendo nuovamente il rilancio di stimoli monetari finalizzati al mantenimento di capitalizzazioni insostenibili, ovvero praticamente fini a sè stessi, come l’unica risposta praticabile. La finanza dovrebbe essere governata, e non governare, le scelte delle banche centrali. Lo choc macroeconomico del coronavirus implica la produzione industriale, il commercio, la logistica, in poche parole le fondamenta generali della globalizzazione. La risposta governativa dovrebbe esser sistemica: gli umori delle borse non possono essere, ora, la giustificazione per proseguire la situazione difficilmente sostenibile di mercati finanziari inflazionati contrapposti a un’economia reale anemica.

Charles Kindleberger, uno dei maggiori storici dell’economia del secolo scorso, ha sempre indicato nel passaggio dall’euforia al panico il punto di svolta che porta all’emersione di ogni crisi finanziaria. In questo caso, però, il panico sembra essere più quello dei regolatori che temono di doversi addossare la responsabilità di un tonfo borsistico e, con la giustificazione del coronavirus, prolungano il Qe globale che ha portato all’attuale fragilità della finanza di fronte agli shock sistemici. La mossa della Fed, che annuncia una manovra emergenziale dopo un rimbalzo positivo dei mercati e in giornata affronta un nuovo ribasso, è stata un capolavoro di pessimo tempismo: le banche centrali, è bene ribadire, risultano credibili efficaci quando riescono a governare gli umori dei mercati e a non farsi, da questi, comandare.

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