L’accordo sui tagli alla produzione negoziato da Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia non ha riportato il sereno sul mercato del petroliorimasto preda di diverse incertezze e fragilità strutturali. Nelle ultime sedute prima del weekend, il greggio statunitense Wti non solo non è riuscito a mantenere il prezzo al barile sopra quota 20 dollari, ma ha anche subito nuovi ribassi superiori al 10%, crollando attorno ai 17 dollari, il minimo da 18 anni. Il tutto mentre il Brent, indice che prezza il greggio del Mare del Nord, ha mantenuto la relativa stabilità a 28 dollari al barile.

L’accordo cosiddetto “del secolo” non ha, per ora, prodotto gli sperati effetti positivi sul mercato del petrolio e invertito in maniera netta il trend ribassista che la guerra dei prezzi russo-saudita aveva contribuito a incentivare. Il sentimento del mercato è negativo, la crisi del coronavirus è un fattore di incertezza di portata cruciale, la natura anemica della domanda e la mancanza di chiarezza sulle prospettive di ripresa del sistema pesano come macigni sui prezzi.

Nel mercato delle materie prime energetiche la “diretta proporzionalità” non è scontata. Invertendo una decisione (in questo caso la corsa al rialzo della produzione tra Russia e Arabia Saudita) non necessariamente si torna sul terreno già battuto. Anzi, in questo caso accordi che sembrano costruiti su castelli di carta possono aggiungere, piuttosto che ridurre, entropia al sistema. Sul Wti sono da segnalare le manovre sui titoli ad esso associati del fondo  US Oil Fund, che si è dichiarato costretto da “condizioni del mercato e richieste dei regolatori” a ristrutturare il suo portafoglio. In pratica, spiega Il Sole 24 Ore, “vende Wti per maggio (contribuendo al crollo delle quotazioni) e compra Wti per giugno. Movimenti banali, salvo che a compierli è il classico elefante nella cristalleria”, che controlla un quarto delle posizioni aperte sul greggio Usa.

Perchè questa mossa? Evidentemente il fondo si aspetta solo da giugno una prima ripresa della domanda mondiale, e con le sue manovre da qui al prossimo mese deprimerà il mercato del Wti che, essendo tralaltro associata alla produzione a stelle e strisce, contribuirà alle tensioni economiche degli States.

Gli investitori e i compratori manifestano incertezza anche sull’effettiva capacità dei Paesi produttori di rendere operativo un taglio di produzione destinato a sfiorare i 10 milioni di barili al giorno. La Russia, che dopo Riad si è fatta carico della quota di riduzione più consistente, ha in tal senso diversi problemi. Mosca, salita a fine 2019 a una produzione-record di 11,25 milioni di barili al giorno, ha promesso 2,5 milioni di barili di taglio. Rosneft, che da sola pesa per il 40% dell’output e produce tanto petrolio quanto l’intero Iraq, dovrebbe secondo gli analisti tagliare tra i 600 e i 630.000 barili al giorno, Lukoil 240-270.000 mentre Gazprom Neft, riporta il Financial Timesnon ha voluto esprimere la sua posizione in materia di riduzione produttiva. Tra i grandi produttori potrebbe iniziare una partita strategica, dato che molti big del petrolio russo, come l’ad di Rosneft Igor Sechin, non vogliono accelerare sul taglio rispetto ai concorrenti. Certamente ovunque nel mondo il taglio andrà fatto per quote e senza destabilizzare la filiera, gli impianti e le organizzazioni messe in campo. Ma dalle fibrillazioni delle prime ore, si sa già che la sfida sarà dura. E per i mercati del petrolio i prossimi mesi potrebbero essere vissuti sull’ottovolante.





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