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Intervenendo al Meeting di Rimini l’ex governatore della Banca centrale europea Mario Draghi ha, in un ampio e interessante discorso, toccato più volte il tema del problema del debito. Tema da lui già affrontato a marzo nell’editoriale sul Financial Times in cui il banchiere romano invocava l’utilizzo dei deficit nazionali contro la crisi economica legata alla pandemia da coronavirus.

Parlando della risposta dei governi al Covid-19 e al contagio economico, Draghi ha fatto notare come “il deficit e il debito pubblico sono cresciuti a livelli mai visti prima in tempo di pace”, a livelli senza precedenti; in questo contesto, il banchiere ha avvertito che è necessario distinguere tra debito “buono” e debito “cattivo”. “Questo debito, sottoscritto da Paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi ad esempio investimenti nel capitale umano, nelle infrastrutture cruciali per la produzione, nella ricerca ecc. se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo”.

A Draghi non si può negare di aver visto in anticipo la necessità di un forte impegno pubblico contro la crisi. Al contempo, gli ammonimenti da lui lanciati di fronte alla platea di Comunione e Liberazione hanno senso se letti nell’ottica delle politiche economiche prossime venture, in cui dal tamponamento emergenziale, dai sussidi a pioggia e dalla spesa senza scrutinio si dovrà passare a definire piani di investimento, strategie di politica industriale, visioni di lungo periodo. Ma si può dividere la fase emergenziale della pandemia dagli ultimi anni, dai consolidati sviluppi dell’economia e della finanza internazionale e dal new normal creatosi in seguito alla Grande Recessione del 2008 e alla crisi dei debiti europea? A nostro avviso, no.

Il coronavirus, come detto più volte, accelera problematiche già esistenti piuttosto che crearne di nuove. E vale lo stesso anche per il debito. Da considerare non solo sul fronte pubblico, ma a livello aggregato. I picchi di indebitamento del periodo pandemico, legati a tracolli a doppia cifra di quasi tutte le maggiori economie del pianeta, sono l’estrema conseguenza del lungo decennio del debito inaugurato dopo che, dal 2009 in avanti, governi e banche centrali scelsero di trasformare da emergenziale a de facto permanente il modus operandi seguito per tamponare gli effetti della tempesta finanziaria più grande del secondo dopoguerra.

I capisaldi della nuova governance gradualmente costituitasi sono noti: intervento massiccio delle banche centrali, inondazione dei mercati con cascate di liquidità creata dal nulla, dilatazione dei bilanci degli istituti di credito nazionali, rilancio del gioco finanziario e della corsa dei listini in un contesto di stretto legame tra borse e operatori pubblici. A cui si aggiungono le garanzie di ultima istanza degli Stati sul salvataggio dei gruppi industriali e finanziari precipitati in situazioni di crisi per dinamiche esterne alla gestione operativa del loro business.

Il primo problema di questo sistema è che esso si fonda, in fin dei conti, sulla più grande traslazione di debito della storia umana. Attraverso i salvataggi bancari del 2007-2008, le politiche di quantitative easing globali, i piani di salvataggio europei dapprima immense quantità di debito privato sono state prese in carico dagli Stati, mentre in seguito la liquidità a basso costo creata dalle banche centrali ha favorito una vorticosa accelerazione dell’accumulazione di scommesse speculative e nuovo debito privato nelle borse cariche di denaro desideroso di trovare sbocchi. Una grande scommessa i cui attori sapevano bene di tenere il coltello dalla parte del manico: è stata a lungo nota la percezione del fatto che, interrompendo d’un tratto il flusso di liquidità al sistema, l’intera architettura sarebbe franata. Le destabilizzazioni di fine 2018 hanno confermato la dipendenza dei mercati dalle banche centrali, e il “grande ricatto” dei primi nei confronti delle seconde. In questo contesto, a inizio 2019 il Fondo monetario internazionale quantificava il debito complessivo del pianeta in 184mila miliardi di dollari, 225% del Pil mondiale. Il male originario è il debito privato che ha causato la crisi dei subprime nel 2007-2008, a cui poi ha fatto seguito una risposta che all’economia reale ha preferito la spinta sulle nuove acrobazie finanziarie.

Tra acquisti di titoli pubblici, sostegno alle obbligazioni private e piani di stimolo, le principali banche centrali del pianeta non hanno cessato di inondare di liquidità l’economia mondiale, proseguendo con maggior tenacia dopo lo scoppio della pandemia: gli asset della Bank of Japan eccedono del 30% il Pil nipponico, la Fed controlla una quota di risorse pari a oltre un terzo del Pil statunitense e, ricorda Il Sussidiario, martedì 18 agosto ha ulteriormente sfondato il suo precedente record storico, arrivando al massimo di 6,404 triliardi di euro, grazie ad altri 19,4 miliardi di assets acquistati in seno al Pepp. Siamo, oggi, al 61% del Pil dell’eurozona”. Draghi non può scordarsi del fatto che il suo quantitative easing, pur spezzando l’asse austeritario centrato sulla Germania di Angela Merkel, ha in fin dei conti contribuito a questa eccessiva accumulazione che ora genera instabilità e che, essendo dispersa nei mille rivoli della finanza e in gran parte legata al settore privato, non si riesce nemmeno a coordinare per pensare ad interventi che siano diversi da sussidi a pioggia e investimenti poco produttivi.

Nel frattempo, si dilata la distanza che separa economia immateriale e mondo reale. Un mondo sempre meno produttivo, più inquieto e con meno prospettive si contrappone a una finanza che ha ripreso la sua corsa dopo la flessione di inizio pandemia. Negli Usa, ad esempio, al record della recessione trimestrale superiore al 30% si è affiancato di recente il primato dello sfondamento da parte di Apple dei 2.000 miliardi di dollari di capitalizzazione, un valore superiore al Pil spagnolo. Le disuguaglianze di questo tipo, sempre più evidenti e sempre più pesanti, sono uno dei lasciti più problematici del lungo decennio del debito. La cui grande perdente è stata un’economia reale che, nelle economie avanzate, fatica a raggiungere i livelli di prima della Grande Recessione. Mentre anche in piena pandemia le borse fanno festa.

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