La lista dei problemi di Giuseppe Conte si allunga sempre di più. Il premier, e con lui il precario governo giallorosso, deve affrontare questioni assai delicate, come il futuro dell’ex Ilva di Taranto, il salvataggio Alitalia e la difesa degli operai della Whirlpool. Ma non è finita qui, perché accanto ai problemi economici e sociali non mancano numerosi nodi politici: da una manovra 2020 che ha già spaccato la maggioranza alla diatriba sul Mes, dal rischio di uno sgambetto da parte di Renzi allo spauracchio delle elezioni anticipate.

Il quadro, di per sé già abbastanza traumatico, potrebbe incupirsi ulteriormente per colpa di Donald Trump, pronto a imporre dazi pesantissimi sull’Europa, Italia compresa. Chi frequenta le stanze della Casa Bianca ha parlato di un Trump letteralmente furioso per come si stanno mettendo le cose con gli alleati del Vecchio Continente. Il punto di rottura, o meglio la goccia che ha fatto traboccare il vaso – già colmo di tante piccole goccioline – è la cosiddetta web tax che Bruxelles sogna di estendere in tutto il Vecchio continente. La tassa sulle multinazionali di Internet punta a colpire i giganti della rete, gli stessi che fin qui hanno saputo approfittare al meglio di un sistema di tassazione vantaggioso con la compiacenza di numerosi Paesi membri dell’Ue. Inutile nascondersi dietro un dito: i bersagli della misura sono i “Gafa”, cioè i colossi americani del calibro di Google, Amazon, Facebook e Apple.

Una minaccia per il made in Italy

Trump, fedele alla linea politica “America First”, non ha alcuna intenzione di restare inerme mentre l’Europa si divertirà a colpire le aziende americane a colpi di aliquote. Mentre la Francia ha già imposto un prelievo del 3% sulle entrate delle società con ricavi globali pari almeno a 750 milioni di euro, 25 dei quali generati in territorio transalpino, l’Italia potrebbe adottare una misura simile a partire da gennaio, come confermato da Roberto Gualtieri riferendosi alla web tax prevista nella legge di bilancio. Il tycoon ha minacciato di inondare la Francia – e chiunque le andrà dietro – con dazi “fino al 100%”. Roma subirebbe una batosta non da poco, considerando che il mercato statunitense è il terzo sbocco mondiale delle nostre aziende, che incassano una cinquantina di miliardi di euro all’anno vendendo a Washington, tra l’altro, prodotti farmaceutici, macchinari vari, agroalimentare e abbigliamento.

Il dilemma del governo giallorosso

La risposta degli Usa alla web tax europea, insomma, è racchiusa nella parolina magica formata da quattro lettere tanto cara a Trump: dazi. Il governo italiano probabilmente non si è reso conto della bomba a orologeria innescata dalla Casa Bianca. Anzi, al vertice Nato a Londra Conte ha dribblato la grana tariffe dicendo alla stampa di non aspettarsi niente di simile da parte di Trump. I casi sono due: o Giuseppi non ha avuto modo di sentire le minacce (reali) uscite dalla bocca di The Donald oppure ha fatto finta di non sentirle. Quale che sia l’ipotesi corretta, in entrambi i casi il premier ha commesso un errore piuttosto grave: ha sottostimato la pericolosità dei possibili dazi americani sul made in Italy e non considerato l’eventuale ira di Trump di fronte a scelte ambigue.

Un discorso simile può essere esteso anche alla nuova tecnologia per reti cellulari, cioè quel 5G che ha spinto gli Stati Uniti a lanciare l’ennesimo avvertimento ai partner europei: non aprite le porte alle aziende cinesi. Conte ha detto di non aver neanche sfiorato l’argomento, mentre Trump, smentendo l’avvocato del popolo, ha sottolineato come di 5G se ne sia parlato eccome. In ogni caso, tornando alla web tax, il governo giallorosso ha di fronte a sé due strade. La prima: applicare la tassazione sui giganti del web e incamerare i circa 708 milioni previsti dall’attuazione di tale misura, scatenando però la rappresaglia di Washington. La seconda: dimenticarsi della web tax in nome dell’amicizia di Washington. Anche a costo di perdere i citati 708 milioni e dover rifare i conti per far quadrare il bilancio.